Come riportato dall’agenzia di stampa Nova, dopo le offensive degli ultimi mesi le forze armate siriane fedeli a Bashar al Assad sarebbero riuscite a stabilizzare il nord del Paese, giungendo sino ai confini con il territorio turco e iracheno. A confermarlo è stato Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo, che ha sottolineato come le compagini terroristiche attive nella zona stiano indietreggiando, perdendo sempre più influenza. Le uniche zone nella quale si stanno ancora verificando scontri sarebbero circoscrivibili alla provincia di Idlib, area in cui l’esercito siriano sarebbe in procinto di chiudere definitivamente la partita.
La riconquista della provincia di Idlib è particolarmente importante per l’esercito lealista siriano, in quanto una delle ultime roccaforti della Siria ancora in mano a quel che rimane dello Stato islamico. Non bisogna dimenticare infatti che lo scorso 27 ottobre la città siriana fu proprio il teatro della morte del califfo nero Abu Bakr al-Baghdadi, che dietro le fila islamiste aveva fino a quel momento trovato rifugio.
Nella città avrebbero trovato rifugio negli ultimi la quasi totalità degli oppositori al regime di Assad, successivamente alle disfatte dei contingenti dell’opposizione nelle altre aree del Paese. Portare a casa la liberazione di Idlib significa verosimilmente porre fine al conflitto civile con la cattura dei capi della rivolta ancora in vita e dei sostenitori delle forze anti-regime. Il rischio però è di creare una nuova crisi umanitaria, in quanto la regione possiede una popolazione di circa 3 milioni di abitanti che, con la paura di essere marchiati come oppositori da eliminare, potrebbero scegliere la via della migrazione.
Si avvicina la fine di un lungo conflitto?
Per la popolazione che è stata liberata dalla piaga della guerra, la possibilità di riprendere regolarmente la propria vita non sembra più un lontanissimo miraggio. Dal 2011 ad oggi, la guerra ha provocato l’emigrazione di quasi 6 milioni di persone (dati Agi al marzo 2018) e circa mezzo milione di vittime, in un Paese che agli albori del conflitto possedeva 23 milioni di abitanti.
Oltre alla migrazione forzata che si è riversata in Turchia prima di proseguire il viaggio verso l’Europa, appoggiandosi alle isole greche, anche la situazione per chi ha deciso di restare non è stata semplice: esattamente come non lo sarà il prossimo futuro. L’apparato economico del Paese è stato devastato da otto anni di guerra, nel quale ogni parvenza di attività commerciale è stata cancellata. Le risorse sono scarse, così come la possibilità della Siria di importare merce dall’estero, a causa del dispendioso mantenimento dell’esercito in guerra e alle sanzioni. La distruzione delle principali linee di comunicazione ha creato inoltre un danno che rischia di peggiorare le possibilità di ripartenza nel breve termine, con interi villaggi e città isolati dal resto del Paese. La stessa economia, in assenza di vie di comunicazione efficienti, ne risentirà soprattutto in quello che dovrebbe essere lo sprint iniziale per la ricostruzione.
Una volta che la situazione sarà definitivamente stabilizzata, al governo siriano arriverà necessariamente il “conto” da pagare da parte degli alleati che lo hanno sostenuto: in primo luogo della Russia di Vladimir Putin, che nei lunghi anni di conflitto ha fornito un supporto essenziale alle forze armate siriane. E nonostante Assad risulti il vincitore militare, il rischio è che ci sia qualcosa di diverso e il leader siriano non sia in grado di avere realmente in mano lo scettro di Damasco. Questo perché di fatto impossibilitato a portare avanti le proprie politiche a causa delle pressioni estere che sarà costretto a subire.