Gli Stati Uniti sembrano in fase di ripresa, dal punto di vista militare, dal duro colpo inferto dalla pandemia attualmente in corso: vi abbiamo già raccontato di come, nel settore del Pacifico, la Us Navy stia recuperando la sua capacità di proiezione di forza con l’imminente reingresso in servizio della portaerei Uss Theodore Roosevelt (Cvn-71), messa fuori combattimento proprio a causa del focolaio epidemico scoppiato a bordo; altre unità navali in quel settore sono state sottoposte a quarantena preventiva mentre dalla parte opposta della barricata la marina cinese effettuava la sua dimostrazione di forza oltrepassando, nuovamente, la Prima Catena di Isole ed entrando nel “alto mare” del Pacifico Occidentale.
Parallelamente però il Pentagono ha dovuto mettere in atto dei provvedimenti per limitare la diffusione del contagio tra i militari: il 25 marzo scorso è stato emanato l’ordine di annullare gli spostamenti delle truppe oltremare per almeno 60 giorni mentre alcune esercitazioni, anche importanti, sono state annullate.
A Washington la pandemia ha avuto l’effetto della classica “pioggia sul bagnato”: per gli standard americani le Forze Armate non sono particolarmente in buona salute, e la riprova è data proprio dall’Usaf ed in particolare dalla sua flotta di bombardieri strategici. Recentemente abbiamo analizzato la situazione dello Us Stratcom (Strategic Command) che, per vari motivi tra cui anche la politica di disarmo post Guerra Fredda, si è ritrovata oggi con una manciata di bombardieri operativi.
Emblematico, da questo punto di vista, è il ritiro da Guam di quella “forza di dissuasione” composta da bombardieri strategici che da 16 anni era di stanza stabilmente sull’isola dell’arcipelago delle Marianne, base avanza cruciale per gli interessi americani nel Pacifico Occidentale.
Nonostante queste problematiche, strutturali e contingenti, gli Stati Uniti non hanno certo rinunciato a “mostrare la bandiera” nei cieli dei teatri caldi del globo. Nei giorni scorsi bombardieri B-1B Lancer si sono visti proprio nel Pacifico e anche in volo sul Baltico.
Proprio nella giornata di lunedì 11 maggio un Lancer ha attraversato l’Atlantico, decollando dalla base di Ellesworth (South Dakota), per raggiungere la regione baltica dopo essere stato rifornito in volo da aerocisterne decollate dalla base inglese di Mildenhall, e venendo scortato da F-16 danesi e da altri F-16 e Mig-29 polacchi. Il volo di esercitazione, condotto per verificare “l’interoperabilità e l’integrazione” con gli alleati, è avvenuto a pochi giorni da una prima missione sempre nella stessa aerea: il 5 due B-1B, sempre decollando dagli Stati Uniti, hanno volato su Estonia, Lettonia e Lituania ancora una volta scortati da F-16 danesi.
La missione è avvenuta a pochi giorni da un “ritorno storico”, questa volta dell’Us Navy: 3 cacciatorpediniere classe Arleigh Burke insieme ad un altro della Royal Navy hanno fatto il loro ingresso nel Mare di Barents per la prima volta dopo più di 30 anni, ovvero dai tempi della Guerra Fredda.
Nei giorni scorsi missioni di bombardieri sono state effettuate anche nel Pacifico Occidentale: il primo maggio una coppia di B-1B, decollati dalla base aerea di Dyess (Texas), ha raggiunto dapprima Okinawa e poi Guam, per effettuare “puntate” nel Mar Cinese Meridionale. Stessa destinazione, ma con un impressionante volo senza scalo, per altri due B-1B che il 30 aprile sono decollati sempre da Ellsworth.
Più recentemente, il 7 maggio, altri velivoli dello Stratcom, nello specifico due B-52H decollati dalla base di Minot (North Dakota), due B-2 della base Whiteman (Missouri), e una seconda coppia di B-52H di Barksdale (Louisiana), hanno effettuato missioni in contemporanea nel Pacifico e in Europa. Un chiaro segnale per Pechino, ma non solo, che, anche a dispetto dell’abbandono della presenza permanente a Guam, lo Stratcom coi suoi bombardieri c’è.
C’è anche però un altro lato della medaglia, che non è affatto piacevole per il Pentagono, e che riguarda proprio i bombardieri B-1B. La situazione dei Lancer è infatti molto seria e riguarda proprio l’enorme carico di lavoro che hanno dovuto sobbarcarsi in due decadi di era di conflitti asimmetrici. L’Usaf, infatti, è arrivata al punto di dismettere 17 velivoli su 62 della flotta di B-1B proprio per razionalizzare gli interventi di riparazione e manutenzione ma questo ha causato, in un circolo vizioso, una sempre maggiore usura di quelli rimasti a causa degli elevati ritmi di turnazione operativa.
Se nel 2018 lo Stratcom aveva registrato un tasso di disponibilità operativa del 51,7% per i Lancer, l’anno successivo questo era drammaticamente sceso a meno del 10%, vale a dire sei velivoli in totale. La flotta dei B-1B è stata sfruttata al di là delle capacità offerte dalla macchina, tanto che il generale Nahom, vice capo di stato maggiore per piani e programmi dell’Usaf, ha affermato in una recente intervista che “alcuni B-1B di base a Ellsworth e Dyess sono ormai ridotti in condizioni tali che risulta più sensato ritirarli dal servizio in modo che i manutentori possano concentrare i loro sforzi sugli aerei che hanno maggiori chances di essere ripristinati”.
Una situazione per nulla rosea per il Pentagono che, come abbiamo visto, conta ancora sul B-1B come strumento di deterrenza sfruttandolo a fondo, sebbene, come noto, abbia perso la capacità di bombardamento nucleare a partire dal 1995 con la rimozione dei cablaggi per lo spolettamento e armamento delle testate atomiche.
Non bisogna però fraintendere e pensare che la capacità di bombardamento strategico dell’Usaf sia compromessa in modo irreparabile: lo Stratcom dispone attualmente, al suo attivo, ancora 157 tra B-1B, B-52H e B-2. Però questa forza, come già detto, è stata fortemente intaccata nelle sue disponibilità e quindi nelle capacità operative soprattutto a fronte del mutato assetto geopolitico globale, ed il futuro, considerate le tempistiche di ingresso in servizio dei nuovi bombardieri B-21 Raider, non è certo roseo.