Le esplosioni al gasdotto Nord Stream hanno solo fatto tremare il Baltico, ma anche scosso i già fragili equilibri strategici dell’Europa nel mezzo della guerra in Ucraina. Le falle create sul gasdotto che collegava la Russia alla Germania – e il cui raddoppio rappresentava la saldatura di questo asse energetico pesantemente criticato da Washington – hanno rappresentato un vero e proprio momento di rottura, simbolico oltre che strategico. Un punto di non ritorno sia per il sistema infrastrutturale ed energetico europeo, sia per i rapporti politici tra Mosca, Berlino e la Nato.
Sin dai primi momenti, le accuse mosse dai Paesi della regione, dalla Germania e dall’intera Alleanza Atlantica si sono rivolte verso la Russia. Secondo molti analisti, ma soprattutto dai politici dei vari Paesi, si era di fronte a un chiaro atto di sabotaggio da parte delle forze speciali della Marina russa con l’intento di dimostrare cosa avrebbe significato sostenere Kiev. Del resto, Mosca è una delle poche potenze regionali ad avere tutte le capacità tecnologiche e militari per compiere un attacco di quella portata, che ha creato falle particolarmente gravi su tutto il tracciato in acque danesi. Inoltre, e questa è l’analisi strategica, in questa fase il Cremlino aveva tutto l’interesse a colpire quel gasdotto in quanto non più utilizzato ma simbolicamente in grado di mandare un messaggio molto chiaro nei confronti della Germania e dell’Europa. In sostanza, Vladimir Putin avrebbe fatto comprendere al blocco occidentale che il suo gas poteva interrompersi da un momento all’altro e in modo definitivo.
Alcuni osservatori avevano però posto in dubbio non tanto la possibile responsabilità russa, ma la facilità di attribuire questo attacco a Mosca senza prove precise su movimenti sospetti di unità nemiche alla Nato utili a questo scopo (cosa che invece la stessa Alleanza ritiene plausibile). Inoltre, non è solo la Russia a possedere le qualità per andare in profondità e minare quei tracciati e qualcuno ha ricordato che Mosca non aveva motivo di distruggere un’infrastruttura così importante che era l’unico collegamento fisico del proprio gas con il cuore dell’Europa e il suo maggiore cliente, soprattutto in chiave futura. Soprattutto perché in quel momento non generava alcun tipo di introito.
Questi dubbi sono stati riproposti curiosamente dalla stampa d’Oltreoceano, e in particolare dal Washington Post. Il quotidiano Usa, in un recente articolo, ha infatti segnalato che diverse fonti europei a conoscenza del dossier o comunque che si occupano di studiare il caso dell’attacco al Nord Stream iniziano a essere scettici sulla presunzione di colpevolezza russa. Un funzionario sentito dal Wp ha detto esplicitamente che a questo punto “non ci sono prove che la Russia fosse dietro il sabotaggio”, e 23 diplomatici e uomini dell’intelligence di nove Paesi condividono questo ragionamento pur non negando che Mosca possa essere davvero responsabile. Di base, in questo momento risulta impossibile qualsiasi tipo di attribuzione di responsabilità e quindi – questo è il filo rosso che lega le varie fonti – se la Russia è la maggiore indiziata, dall’altro lato non è corretto spingersi troppo in avanti con le accuse.
Interessante, a questo proposito, anche la precisazione che fa il Washington Post sull’intelligence statunitense, dal momento che il quotidiano ha certamente contatti molto inseriti nell’ambito dei servizi Usa. I giornalisti del quotidiano puntano proprio sul lavoro delle agenzie di spionaggio americane per considerare ipotesi alternative rispetto alla pista moscovita. “Gli Stati Uniti intercettano regolarmente le comunicazioni dei funzionari russi e delle forze militari, uno sforzo di intelligence clandestino che ha contribuito a prevedere con precisione l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca a febbraio” scrivono, “ma finora, gli analisti non hanno sentito o letto dichiarazioni da parte russa che si attribuiscano il merito o suggeriscano che cercano di nascondere il loro coinvolgimento”.
In sostanza, per i funzionari intervistati dal giornale statunitense il problema in questo momento non è più quello di capire perché e come la Russia abbia colpito il gasdotto, ma un passo indietro: bisogna ancora capire chi l’ha fatto. Con una serie di punti interrogativi che inquietano diversi apparati di sicurezza, che da un lato cercano di proteggere le infrastrutture strategiche che passano sui fondali marini, dall’altro si domandano da quali attori difendersi. Del resto, dato il particolare momento storico, non è nemmeno da escludere una pista parastatale o legata in qualche modo ad attori statali. Basta pensare al ruolo della Wagner in Ucraina per capire che oggi esistono realtà molto sviluppate sotto il profilo bellico, anche superiore a quello dello stesso esercito russo. E anche guardando altrove, cioè al di fuori dei confini russi, i timori sulla ricerca di un autore insospettabile o mai sospettato o completamente nuovo non è altrettanto inquietante.