Si chiama Sosus ed è una vecchia conoscenza della Guerra Fredda la catena di ascolto sottomarina che serve a scovare i sottomarini, ed ora questa tecnologia, rivisitata e corretta, sarà presto in funzione anche nell’Oceano Indiano.

L’India, infatti, sta posando sui fondali sottomarini tra l’isola di Sumatra e l’arcipelago delle Andamane – Nicobare una serie di sensori che dovranno captare i segnali acustici e magnetici dei sottomarini di passaggio, segnatamente quelli cinesi, in modo da permettere a Nuova Delhi di colmare parzialmente la lacuna nella capacità antisom della sua Marina.

La posa della catena di sensori lunga 2300 chilometri e connessi da un cavo in fibra ottica in grado di far viaggiare informazioni a 100 Gb/s è cominciata a dicembre del 2019 ed era previsto che terminasse entro marzo del 2020, ma l’insorgere della pandemia e di altri problemi più strutturali ne sta tardando la fine.

Il progetto indiano risale almeno al 2015, quando negli ambienti militari di Nuova Delhi comincia a circolare l’idea di un sistema sottomarino di rilevazione passiva. In un articolo comparso in una rivista di difesa indiana dell’aprile dell’anno successivo si ipotizzava che l’India stesse prendendo in considerazione l’assistenza giapponese per la costruzione di una rete sottomarina di sensori posata sui fondali marini che si estendono dalla punta di Sumatra fino a Indira Point, nel Golfo del Bengala, per impedire ai sottomarini cinesi di avvicinarsi alla zona economica esclusiva indiana. Nello stesso articolo si poteva leggere che Nuova Delhi, oltre a fornire fondi per il potenziamento delle basi aeree navali e la costruzione di nuove stazioni di intelligence elettronica e Sigint lungo la catena di isole Andamane e Nicobare, si sarebbe accordata con Tokyo per finanziare un cavo sottomarino in fibra ottica da Chennai a Port Blair, per collegare la catena di ascolto col continente.

Qualcosa di simile è già in funzione in Estremo Oriente: il Giappone, insieme agli Stati Uniti, ha sistemato sui fondali che vanno dalla Corea del Nord sino al Borneo passando per le Filippine e Taiwan l’equivalente moderno del vecchio sistema Sosus.

Il Sosus veniva utilizzato dalla Us Navy a cominciare dalla prima metà degli anni ’50, quando i primi sensori furono posati lungo la costa est degli Stati Uniti, per scoprire le tracce acustiche dei sottomarini sovietici e localizzarli tramite triangolazione. Successivamente, nel corso degli anni, la catena di ascolto venne posata sui fondali marini della costa occidentale e delle Hawaii, intorno al Giappone, senza dimenticare anche di coprire quel tratto strategico di Atlantico del Nord che prende il nome di Giuk Gap, ovvero lo specchio d’acqua tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito che era ed è l’unico passaggio obbligato per la Flotta Russa del Nord verso l’oceano.

Quando la catena di rilevamento indiana sarà completata, molto verosimilmente verrà integrata con l’attuale rete Sosus nippo-americana che prende il nome di Fish Hook, e che come abbiamo già accennato serve per monitorare l’attività dei sottomarini della Marina di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e lungo gli accessi verso il Pacifico Occidentale.

Il sistema, attivo sin dal 2005, comprende un array (allineamento) di idrofoni e rilevatori di anomalie magnetiche sul fondo del mare, che lavorano in coordinamento con gli aerei da ricognizione marittima per ottenere una capacità Asw (Anti Submarine Warfare) su più livelli. Il Fish Hook è gestito dal centro di ricerca oceanografica della Jmsdf (Japan Maritime Self Defense Force) e dal personale della marina statunitense.

Anche la Cina ha sviluppato una sua rete di sorveglianza subacquea. Il sistema, che è già stato attivato, funziona raccogliendo informazioni sull’ambiente sottomarino, in particolare temperatura dell’acqua e salinità, che la Marina può utilizzare per tracciare più accuratamente le unità navali subacquee avversarie e migliorare la capacità dei propri sottomarini di inseguirle.

Il progetto, guidato dal South China Sea Institute of Oceanology sotto l’egida dell’Accademia Cinese delle Scienze, rientra nella corsa agli armamenti senza precedenti alimentata dal desiderio di Pechino di sfidare gli Stati Uniti negli oceani del mondo per scardinare l’egemonia navale americana.

Se il sistema indiano verrà integrato nella rete Sosus gestita da Giappone e Stati Uniti si aprono però degli interrogativi di carattere politico e di sicurezza. Condividere parzialmente o totalmente i dati raccolti dalla catena di ascolto significherebbe per l’India fare una scelta di campo e dimostrare di aver scelto di stare “dalla parte di Washington”. Parallelamente vorrebbe anche dire aprire gli accessi dei propri sistemi informatici a due Paesi stranieri, che non sono nemici, ma nemmeno alleati in senso stretto.

Nel caso del Sosus nippo-americano, ad esempio, mentre il personale della Jmsdf e della Us Navy gestisce congiuntamente il centro di osservazione oceanografica di Okinawa, tutte le informazioni disponibili passano al Comando del Pacifico degli Stati Uniti, poiché la struttura è sotto il controllo operativo della marina americana. Il timore degli indiani è che che possa essere loro richiesto di fornire ai collaboratori stranieri un livello di accesso alle informazioni con il quale la marina indiana potrebbe non essere troppo a suo agio.

C’è poi un’altra considerazione, che riguarda direttamente la Cina. La chiusura della catena Sosus del Pacifico Occidentale con il tratto Sumatra – Andamane/Nicobare significherebbe mettere sotto controllo lo Stretto della Malacca, considerato da Pechino vitale al pari della sovranità sul Mar Cinese Meridionale. Si riproporrebbe quindi per l’ennesima volta il dilemma che attanaglia il Politburo: assicurarsi il controllo degli stretti che portano ai mari interni lungo i quali passano centinaia di miliardi di dollari di merci vitali per la propria sopravvivenza prima che un Paese straniero lo faccia e quindi abbia in mano la carta per “strangolare” la Cina.

Una tale decisione, da parte dell’India, potrebbe provocare una dura reazione cinese che potrebbe prevedere la costruzione di ulteriori bolle A2/AD nei propri possedimenti che contornano il bacino dell’Oceano Indiano e che fanno parte della Nuova Via della Seta: da Gibuti al porto pakistano di Gwadar sino a quello di Hambantota nello Sri Lanka, preso “in affitto” per 99 anni come pagamento dei debiti contratti dal piccolo Stato dell’isola di Ceylon.





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