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Afrin è caduta. Sulle mura bruciate e sbrecciate della città ora campeggiano le bandiere turche e quelle dell’Esercitosiriano libero, la formazione ribelle benedetta da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Paesi del Golfo e Giordania, che ora fa il lavoro sporco per Recep Tayyip Erdogan.

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Il Sultano è riuscito a ritagliarsi una zona di controllo nel nord della Siria, fondamentale per trattare con Iran e Russia al prossimo giro dei colloqui che si terranno ad Ankara il 4 aprile. In questo modo, Erdogan ha strappato ogni sogno di indipendenza ai curdi, che ora, dopo esser stati abbandonati dagli Stati Uniti, non possono far altro che cercare protezione a Damasco. Uno scenario impensabile fino al 20 gennaio scorso, giorno in cui è iniziata l’operazione “Ramoscello d’olivo”.

Ma la battaglia che si è combattuta ad Afrin deve essere letta alla luce di ciò che sta accadendo nella Ghouta orientale, dove l’esercito siriano controlla ormai l’80 percento del territorio. A breve, questo sobborgo alle porte di Damasco sarà definitivamente liberato e Bashar al Assad potrà concentrarsi sull’assalto finale all’ultima roccaforte ribelle (Idlib) e alla difesa dei confini.

Erdogan, vedendo sfumare il suo progetto iniziale sulla Siria, ha saputo muoversi in maniera esperta, cambiando di volta i suoi obiettivi. Prima ha sostenuto i ribelli, poi li ha bombardati e, infine, è tornato a servirsi di loro. E lo stesso con la Russia vista inizialmente come un avversario da combattere e poi come una potenza con la quale dialogare necessariamente. Gli Stati Uniti, con il loro silenzio, hanno lasciato ai turchi la possibilità di agire indisturbati.

È chiaro che il Sultano voglia ritagliarsi uno spazio che per forza di cose ci sarà nella Siria di domani. Per ora è stato abile a sfruttare l’arroganza curda e l’ambiguità degli Stati Uniti, riuscendo, con la conquista di Afrin, a portarsi in vantaggio. Ma gli equilibri, in questa guerra in continuo divenire, potrebbero cambiare già nelle prossime settimane.

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