Le milizie filo-Assad entrano ad Afrin con i primi mezzi che sventolano la bandiera siriana e i curdi a fare strada. Poi la prima bomba, la seconda, la terza, e quei boati che sono ormai una costante nei cieli della Siria e che fanno saltare che collegano Afrin all’esterno della provincia. Sono colpi dell’aeronautica e dell’artiglieria turche. La Turchia ha risposto con dei colpi di avvertimento fermando l’avanzata delle forze legate all’esercito siriano. I turchi esultano, i siriani negano. Nessuno, adesso, può veramente capire cosa stia succedendo. Ma è importante provare a ragionare.
Come riporta l’agenzia turca Anadolu, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, durante una conferenza stampa ad Ankara, ha parlato di movimenti di milizie sciite verso Afrin bloccati dall’intervento dell’artiglieria turca. “Sono stati costretti a tornare indietro. Questo capitolo per ora è chiuso“. Ma in realtà, questo capitolo, per quanto il presidente turco possa raccontare, è tutt’altro che chiuso. E sembra difficile si chiuda nel breve termine. Innanzitutto perché i siriani negano ogni tipo di ritirata. Nella serata di ieri, fonti vicine alle forze filo-governative hanno smentito le notizie riportate dai media ufficiali turchi e hanno dichiarato all’agenzia di stampa Dpa che “due gruppi delle nostre unità sono entrati ad Afrin e hanno preso posizione, mentre un terzo gruppo che sarebbe dovuto entrare nell’area ha rinviato l’ingresso dopo l’attacco delle forze turche”. E poi perché non sembra che Damasco voglia fermarsi quando potrebbe riottenere un territorio dato ormai per perduto.
In queste ore, il presidente Erdogan ha dichiarato che le forze armate di Ankara sono pronte a porre sotto assedio le milizie curde dell’Ypg dell’enclave di Afrin. Una messaggio molto chiaro che però può declinarsi in vari modi. Il leader turco in questi giorni aveva dichiarato che l’esercito siriano sarebbe stato accolto con favore della forze turche ma soltanto qualora queste non si fossero unite alla resistenza contro l’operazione “Ramo d’ulivo“. Ha parlato di guerra al terrorismo, perché così considera le milizie curde alleate del Pkk. Ma, come sempre in questa guerra, Erdogan sembra più che altro a caccia di garanzie sui curdi. E sembra di nuovo disposto a cambiare opinione se l’offerta lo soddisferà.
Ma queste garanzie chi può dargliele? In questo momento, l’assenza di una chiara strategia americana sul fronte siriano induce gli attori di questa guerra a fare come meglio credono con una libertà di manovra che è contenuta soltanto dalla Russia. Il blocco di Astana, composto da Iran, Russia e Turchia, insieme alla Siria, ha deciso gran parte dell’attuale scacchiere siriano. Ma sono tutti Stati che hanno una loro autonoma visione della Siria che non si sovrappone necessariamente a quella degli attuali alleati. A tal proposito, va sempre ricordato un dato fondamentale, e cioè che la Turchia questa guerra l’ha iniziata sostenendo le ribellioni anti-Assad, le milizie jihadiste del nord della Siria e lasciando via libera allo Stato islamico con le autostrade del jihad e le carovane di petrolio di contrabbando verso i porti turchi. Erdogan si è dimostrato un ottimo tattico, ma, dal punto di vista strategico, i suoi piani iniziali sulla Siria sono tecnicamente falliti.
L’incontro di pochi giorni fa ad Ankara tra Erdogan e Tillerson, subito dopo quello fra Cavusolglu e il segretario di Stato americano, ha avuto come focus proprio i curdi delle Ypg, alleati di Washington durante la guerra contro il Califfato e gradualmente abbandonati quando la Turchia ha iniziato a premere. Nell’incontro-fiume di tre ore, il presidente turco ha cercato di far capire agli Stati Uniti che non ha intenzione di cedere sui curdi, ma ha probabilmente ricevuto il monito degli Usa sul fatto che la Turchia, piaccia o meno, è ancora parte di un’alleanza, la Nato, che vede in Washington la stella polare. La Turchia di oggi sembra destinata quasi a uscirne, ma non lo fa. E quel confine fra Siria e Turchia resta il confine della Nato in Medio Oriente. Un problema non di poco conto e forse, a volte, anche sottovalutato. Da non sottovalutare, le recenti parole della portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauer, che ha detto che gli Stati Uniti inizieranno a lavorare insieme con la Turchia “in modo migliore” in modo che i due paesi possano raggiungere gli obiettivi reciproci. Ribadendo la partecipazione di entrambi i Paesi alla Nato.
L’alternativa è cercare garanzie dai russi. Ma Putin, che gioca questa partita in Siria con una logica del tutto diversa da quella di Erdogan, vede con favore un accordo fra curdi e Damasco. L’unica garanzia che il Cremlino può dare ai turchi è che le Ypg si fermino (o si sciolgano) una volta che la Siria avrà ripristinato il controllo sul territorio. Un patto che non piace del tutto a Erdogan visto che, in ogni caso, dimostrerebbe ancora una volta il fallimento della strategia neo-ottomana del presidente turco. Giocatore abile sul momento, ma destinato a perdere di nuovo il controllo delle aree poste tra i suoi obiettivi. Lo fu con Aleppo, lo è stato con Idlib, lo sarà con Afrin. E la verità è che ora la Turchia inizia a essere scomoda a molti, compresi russi e americani, che potrebbero unire le forze proprio per mettere fine all’euforia di Erdogan, diventato una mina vagante per tutti tra il mar Nero e il Medio Oriente. Dalla Siria al mar Nero, dal petrolio al gas, dal golfo Persico all’Europa, oggi tutti vedono in Erdogan un interlocutore necessario quanto scomodo più che un partner affidabile. E alla lunga il sultano potrebbe rimanere non libero, ma solo.