Tra le aride montagne e i deserti di una terra distante, straziata e segnata da un secolare scontro di civiltà, 53 militari italiani partiti per portare la pace attraverso quella che sommariamente siamo abituati a chiamare “guerra” hanno perso la vita in quello che si è reso uno dei conflitti più lunghi della storia contemporanea. A 15 anni dal primo caduto sul campo di battaglia dell’Afghanistan, è ora di ricordare perché un impegno, per quanto arduo e distante dall’apporre la parola “fine” al suo mandato, non può e non deve essere lasciato incompiuto. E perché noi, giornalisti, reporter e scrittori, non possiamo e non dobbiamo smettere di raccontarlo.

Vogliamo tornare sul campo per raccontare il destino dell’Afghanistan, tomba di uomini e di imperi. Sostienici

Ogni caduto meriterebbe il suo nome in calce e la sua storia in ogni articolo che cerchi di spiegare cos’è e cosa è stata la missione italiana in Afghanistan. Ma leggere i nomi e i gradi di 53 uomini non farebbe altro che rimandarci ad un triste necrologio. Ci basti sapere che tutti loro erano partiti con un compito preciso, e per onorarlo e portare a termine il proprio dovere sono caduti in una terra straniera che aveva bisogno del nostro aiuto. Carabinieri scelti, paracadutisti incursori, agenti dei servizi segreti chiamati ad intervenire in un paese straziato da invasioni e scontri interni, al centro della “guerra fredda” prima e della “lotta al terrorismo” poi. Dove nella popolazione civile si sono contate decine e decine di migliaia di morti.

La sforzo italiano in Afghanistan ha inizio nell’agosto del 2003, due anni dopo l’attentato delle Torri Gemelle pianificato e sferrato da Al Qaeda. All’interno della missione Isaf autorizzata dall’Onu, 2.795 militari delle nostre quattro Forze Armate vengono schierati e distribuiti nell’aeree di Kabul e di Herat, divenendo responsabili del Regional Command West. L’obiettivo della missione Nato, alla quale prendono parte le forze armate di oltre 40 nazioni, è quello di supportare la lotta al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti – intesi a sgominare le milizie talebane e rovesciare il regime fondamentalista da loro instaurato nel Paese – attraverso una missione di “protezione, sostegno al governo afghano e addestramento delle truppe regolari”. Il grosso delle forze attinge dal reggimento di fanteria “Sassari”, ma sono presenti anche gli uomini del reggimento bersaglieri “Teulada”, dei reggimenti di fanteria “Bari” e “Trieste”, del reggimento paracadutisti “Folgore”; vengono inoltre schierati gli elicotteri e i piloti del reggimento Aves “Vega”, personale d’intelligence dei servizi segreti per gli esteri e uomini appartenenti all’Arma dei Carabinieri. L’anno seguente, nel 2004, il primo militare italiano perderà la vita in un incidente.

Nonostante la natura dell’impegno militare italiano preveda un ruolo prevalentemente di controllo, supporto, e addestramento, una serie di attentati kamikaze, scontri a fuoco con le milizie talebane, esplosioni di ordigni artigianali piazzati per tendere imboscate alle forze della Nato e incidenti, 47 uomini perdono la vita. Altri 4 vengono stroncati da malori durante il servizio; un capitano dell’Esercito si suicida a Kabul nel 2010. Oltre 650 militari nel nostro contingente rimarranno feriti; dalle esplosioni dei primi ied e sotto i colpi delle stesse armi da fuoco fornite ai mujaheddin dalla Cia negli anni ’80, per combattere e sconfiggere le forze sovietiche impegnate nel tentativo d’invadere l’Afghanistan, rendendolo un teatro caldo della Guerra Fredda e il prodromo del crollo dell’Urss. 

La missione Isaf termina del 2014, e vede subentrare la missione Nato “Resolute Support”, con un ulteriore prolungamento dell’impegno italiano nell’addestrare e aumentare l’autonomia delle forze armate afghane tuttora impegnate nello scontro con le milizie talebane accanto agli Stati Uniti e Regno Unito che sono oramai coinvolti in una guerra non convenzionale con truppe “ribelli” da 17 anni; e nell’operazione “Enduring Freedom” hanno coinvolto una forza di oltre 100mila uomini che però non è mai riuscita a prendere il controllo delle regioni in mano ai talebani, dando ulteriore credito alle parole del premier britannico Anthony Eden che negli anni ’30 disse: “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”. 

La parola “fine” che si cerca di apporre da troppo tempo alla guerra in Afghanistan è distante come la pacificazione e la democratizzazione di questa nazione complessa; dove solo le ultime elezioni hanno contato decine di morti tra assassinii e attentati che scuotono continuamente la capitale e le regioni controllate dalla Nato, e che se abbandonata dalle forze di sicurezza internazionale, probabilmente ricadrebbe sotto il controllo di un regime integralista, finanziato dal redditizio commercio dell’oppio (dal quale deriva il 90% dell’eroina presente nel mondo) e forte di aver sconfitto in 40 anni le maggiori potenze militari del pianeta: rendendo quella terra impervia ancora una volta la “tomba degli imperi” – come l’ha rinominata il professore Gastone Breccia. Regime refrattario ad ogni ingerenza esterna che potrebbe commettere le stesse atrocità che abbiamo visto perpetrare nel Siraq dal Califfato.

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Per questo l’Afghanistan non può essere abbandonato a se stesso e per questo la missione italiana non può essere abbandonata. Lì dove si auspica il ritiro delle truppe, migliaia di caduti che contano anche i nostri 54 connazionali non possono rimanere un sacrificio vano. Per questo non possiamo dimenticare l’Afghanistan. Per questo Gli Occhi della Guerra intendono  tornare sul campo: per raccontarvi il destino di questa tomba di uomini e di imperi.