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È passato quasi un anno dal ritorno dei talebani a Kabul. Per fare un bilancio dell’ultimo periodo e per analizzare quella che è stata la guerra al terrore in Afghanistan, abbiamo intervistato il generale Marco Bertolini, già comandante dell’operazione Nibbio (l’intervento italiano a Enduring Freedom) e primo italiano a ricoprire la carica di capo di Stato maggiore del Comando Isaf.

Generale, i talebani sono tornati a Kabul. Cosa è andato storto?

Il ritiro è stato deciso da quegli stessi americani, che avevano voluto l’intervento con la guerra al terrore di Bush all’inizio del secolo e che hanno poi deciso di andarsene perché, evidentemente, non c’era più nessuno scopo per rimanere. Chi ha più fortemente voluto il ritiro è stato Donald Trump sulla base del suo programma di ritiro delle forze Usa “dal mondo”, anche se è stato portato a compimento, malamente, da Joe Biden. Il programma della coalizione a guida americana, con il supporto sostanziale della Nato e di una quarantina di Paesi, era quello di impiantare nel Paese una specie di governo democratico che potesse tutelare i loro interessi. Questo non è successo. O meglio: quello che si è costituito era un governo debole che non riusciva a cavarsela da solo contro un gruppo forte come quello dei talebani, evidentemente più radicato nel paese di quanto non si pensasse. Cosa non è andato bene in Afghanistan? E’ fallito il tentativo velleitario di esportare il nostro “brand”, la democrazia, senza tenere in debito conto le tradizioni e la cultura locale, trafilata attraverso millenni di storia. Un errore tipico, ripetuto anche in altri contesti nei quali l’Occidente si è imposto, armi in mano, di esportare il proprio impianto valoriale. Non si tratta, insomma di un fallimento militare, ma di un fallimento politico e culturale nello stesso tempo.

Perché l’Occidente non ne ha tenuto conto?

Noi occidentali abbiamo sempre guardato con un sostanziale sospetto, se non con un fastidiosissimo razzismo, ciò che si trova in Oriente. Le sue culture sono considerate di secondo o terzo livello. Questa stupida ed immotivata presunzione è stata alla base di tutto. In Afghanistan abbiamo operato in tutti i campi, sia in quello militare sia nel supporto umanitario. Abbiamo operato per aiutare le autorità locali e per addestrare l’esercito e la polizia. Ci siamo impegnati per favorire le loro elezioni, ma tutto questo evidentemente non bastava. I risultati potevano parere apprezzabili nelle città, soprattutto a Kabul, a Herat, ma nelle campagne e nei piccoli villaggi dove la società tradizionale è più radicata era più difficile. Il nostro sistema di vita magari si manifestava nella periferia di Kabul con bidonville fatte con i teli di plastica dell’Unhcr all’interno delle quali c’erano famiglie con il televisore al plasma. Ma questo modello deteriore non attaccava nelle campagne. Di fronte ad uno sforzo così difficile gli americani hanno deciso di venir via.

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Hanno sbagliato ad andarsene?

Secondo me c’è stato un differente approccio da parte, soprattutto, delle due ultime amministrazioni al potere a Washington. Trump voleva questo ritiro per rispettare quello che era il suo programma quando si è presentato come presidente: aveva affermato di voler ridurre la presenza americana all’estero e di rifiutare il ruolo di “gendarme del mondo” per gli Usa. Proprio per questo, aveva anche ordinato il ritiro dalla Siria, ma dopo una sola settimana i soldati hanno dovuti far ritorno perché, evidentemente, quello che alcuni definiscono il Deep State americano non lo accettava. Biden, invece, aveva altre motivazioni che potrebbero forse giustificare la fretta con la quale ha proceduto all’abbandono del paese. C’era forse la volontà di cambiare la gravitazione dello sforzo militare, dall’Asia centromeridionale all’estremo Oriente dove campeggia il problema di Taiwan o come l’Europa dove, guarda caso, è esploso il problema ucraino.

Alcuni analisti sono stati colpiti, tra le altre cose, dalla velocità con cui i talebani hanno ripreso il Paese e la confusione con cui le forze occidentali hanno lasciato l’aeroporto di Kabul…

La velocità è dovuta a quel che dicevo prima: nel Paese profondo il nuovo non si era ancorato abbastanza e alla notizia del ritiro della Nato c’è stato il crollo morale. Chi era molto preoccupato da questo ritorno sono stati soprattutto gli abitanti delle grandi città che si sono presentati in massa in aeroporto di Kabul per andare via. Gli italiani si sono comportati in maniera molto progressiva e seguendo una pianificazione studiata da anni, ma resta il fatto che in tutto il paese l’abbandono è stato molto repentino e altrettanto repentinamente c’è stato il ritorno dei talebani. È la prova che 20 anni non bastano per cambiare alla radice un Paese e portarlo da una condizione come quella in cui si trovava l’Afghanistan ad essere più o meno come noi. In Afghanistan sono state fatte molte elezioni ma sempre con la presunzione che avessero lo stesso significato che hanno da noi. In Afghanistan, invece, non si vota in base ai propri convincimenti politici ma sulla base della propria appartenenza etnica. Questa è una realtà che non abbiamo ancora capito a causa del condizionamento ideologico sulla superiorità dei nostri sistemi; né in Afghanistan, né nei Balcani, né in Medio Oriente. In larga parte del mondo, infatti, le divisioni non sono sulla base di idee astratte e di diritti più o meno fantasiosi come molti per i quali si agitano le nostre opinioni pubbliche, ma sull’appartenenza etnica. Pensare di imporre la nostra logica in un Paese come l’Afghanistan, che ha queste convinzioni da millenni, è una cosa velleitaria che evidenzia anche un approccio razzista veramente insopportabile.

Generale, è vero che noi italiani nell’abbandonare l’Afghanistan abbiamo seguito una scaletta. Però abbiamo lasciato lì tanti afghani che avevano lavorato con noi…

Quanti siano coloro che sono stati abbandonati non lo so. Io credo che si sia fatto il possibile per portar via quanti più possibile e certamente in questo l’Italia ha dimostrato molta più generosità degli altri. Ma in vent’anni abbiamo avuto contatti con decine di migliaia di persone e non potevamo portare via tutti quanti. E poi c’è da considerare il grado di collaborazione che hanno avuto con noi. Un conto è un interprete, un conto è un muratore o un addetto alle pulizie, quindi personaggi meno “coinvolti” con le nostre operazioni, anche se credo che siano stati portati via anche alcuni di loro. Poi ci sono da considerare le esigenza di carattere tattico-organizzativo per un’impresa del genere. Lei ha visto che l’evacuazione è avvenuta solo a Kabul, ma l’Afghanistan è un Paese enorme; da Kabul a Herat ci sono 800 chilometri in linea d’aria, che per strada si trasformano in migliaia di chilometri su una strada molto pericolosa (la Ring Road). Chi abitava attorno a Kabul aveva una possibilità maggiore, quindi, di essere portato via rispetto agli altri. Detto questo, credo che, a meno di casi eccezionali, la massa di coloro che erano più coinvolti con noi sia stata fatta venire in Italia.
In ogni caso, la fine dell’operazione è stato un crollo improvviso anche per noi. Io che sono stato lì e ho visto quanto gli Usa ci hanno investito non mi aspettavo una fine così veloce, un ritiro del genere. È stato un evento inimmaginabile per la sua portata, epocale…

Ci sono tanti analisti che sostengono che la Russia abbia deciso di attaccare l’Ucraina perché ha visto nel fuggi fuggi americano dall’Afghanistan l’immagine di un Paese in declino…

È possibile, ma io non penso che sia andata così. In Ucraina c’erano delle situazioni che da anni stavano esacerbando sempre di più la sindrome di accerchiamento della Russia. Con il ritorno dei democratici al posto di Trump si è riavviato un processo che con Obama era iniziato e che credo la Clinton avrebbe portato a termine se non fosse stata battuta da Trump nel 2016. I democratici hanno sostituito il pragmatismo trumpiano con una impostazione ideologica che ha fatto quasi dimenticare l’idea del nemico epocale che ci era stata indotta, quella del radicalismo islamico, sostituito improvvisamente con quella del russo ortodosso che ora va per la maggiore. Senza tenere conto che si tratterebbe di una assurda contrapposizione inter europea che fa a cazzotti con la storia e con la logica. Impressionante!

Ultima domanda: 53 soldati italiani caduti in Afghanistan. Ne valeva la pena?

Non vale mai la pena di sacrificare la vita di giovani soldati. D’altronde, valeva la pena che morissero 13 soldati in Somalia o più di 30 in Iraq? Chiaramente ogni sconfitta, e indubbiamente l’Afghanistan rappresenta una sconfitta per l’occidente, innesca domande del genere. Ma le guerre si vincono e si perdono. Piuttosto, quello che ci dovremmo chiedere e se sempre ci imbarchiamo in imprese in linea coi nostri interessi. In quel caso, vent’anni fa, ritengo che fosse importante per l’Italia partecipare, e l’abbiamo fatto con efficienza e con onore. E la nostra opinione pubblica era unanime nel considerarci “tutti newyorchesi”, come si disse allora con una certa faciloneria. L’Italia ha dimostrato di essere, dal punto di vista militare, qualcosa di importante e se avesse avuto una politica estera all’altezza di quello che i nostri militari dimostravano ogni giorno in quella terra, l’Afghanistan – nonostante la sconfitta politica – sarebbe stato una occasione di crescita per tutto il paese. Per concludere, non so se ne sia valsa la pena. So però che anche grazie al sacrificio di quei 53 soldati l’Italia ha dimostrato di avere grandi potenzialità, esercitando la responsabilità di un quarto del territorio di quel lontano paese.

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