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Alla fine, l’accordo che sembrava impossibile è stato raggiunto e con una firma, la parola pace, anche se in maniera del tutto formale, ha fatto la sua comparsa nella storia di un conflitto durato più di 19 anni. La guerra, sanguinosa e incessante, è quella tra gli Stati Uniti e l’Afghanistan dei talebani. È accaduto il 29 febbraio 2020, in una giornata che, almeno simbolicamente, non si trova nemmeno ogni anno sul calendario. Ma a Doha, in Qatar, in questa giornata, una delegazione di 31 talebani ha ratificato la fine delle ostilità con l’America di Donald Trump, rappresentata dal segretario di Stato, Mike Pompeo. L’accordo mette fine a una guerra costata la vita a migliaia di persone, tra civili, personale militare e miliziani. La ratifica è il frutto di trattative complesse, elaborate nel corso dei mesi con diverse difficoltà. Ma soprattutto, si può dire che sia il frutto di una settimana di “riduzione della violenza” da parte del gruppo fondamentalista concordata con Washington. Che nella giornata della firma ha ordinato ai suoi “combattenti” di astenersi da qualsiasi tipo di attacco “per il bene della nazione”.

Cosa comporta la ratifica

L’accordo è stato definito “storico” da molti analisti, prima di tutto perché stabilisce un calendario per un ritiro (praticamente completo) delle truppe straniere (Stati Uniti e loro alleati) dall’Afghanistan entro i 14 mesi. O meglio: l’America si è impegnata a ridurre a 8.600 soldati la sua presenza militare nel Paese (che attualmente conta 14mila unità), già nei prossimi 135 giorni. I talebani, però, hanno l’impegno e il dovere di porre fine agli attacchi e avviare colloqui di pace con il governo di Kabul entro il 10 marzo 2020 (per evitare gli stessi sanguinosi scenari degli anni Novanta, quando il gruppo fondamentalista uccise il presidente Mohammad Najibullah e costrinse alla fuga Burhanuddin Rabbani). L’inizio del dialogo tra le due parti dovrebbe essere preceduto da uno scambio di prigionieri, circa 5mila talebani detenuti nelle carceri governative e un migliaio di afghani catturati dagli insorti. Il segretario alla Difesa americano, Mark Esper, in visita nella capitale afghana, ha fatto sapere che gli Stati Uniti “non esiteranno ad annullare” l’accordo se i talebani non dovessero rispettare le garanzie sulla sicurezza e l’impegno a tenere i colloqui con Kabul. Secondo quanto riportato da Il Post, tra gli altri punti, sembra che il governo afghano voglia chiedere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di rimuovere le sanzioni applicate al momento a diversi leader talebani.

Il grande assente: il governo afghano

Ma l’elemento decisivo di questa ratifica è l’assenza della firma del governo di Kabul. Una mancanza che pesa molto più di una presenza qualsiasi. I talebani, infatti, avrebbero sempre rifiutato di parlare direttamente con il governo afghano (definito un nemico praticamente da 30 anni: prima percepito come troppo vicino all’Unione sovietica, poi come uno “strumento” utile agli Stati Uniti e all’Occidente). Così l’assenza del governo afghano ha condizionato (e non poco) i colloqui, influenzando, di fatto, le conseguenze future. Ora, infatti, come previsto, inizierà la seconda fase del processo di pace, forse la più importante, durante la quale governo e talebani dovrebbero accordarsi sul ruolo che il gruppo fondamentalista avrà nella condivisione del potere dello Stato. Elemento da non sottovalutare, perché fortemente connesso a diverse implicazioni sociali (come i diritti civili della popolazione).

Trump: “Un’opportunità storica”

Il trattato, firmato dal mullah Abdul Ghani Baradar, uno dei fondatori dei taliban, e dal negoziatore americano con doppia cittadinanza Zalmay Khalilzad, anche se considerato da tutti soltanto un primo passo verso la pace, una svolta chiave per il Paese. Ma restano molte incertezze sul futuro dello Stato e diverse perplessità. Ma l’accordo firmato dall’America di Trump, entrata in conflitto con il regime talebano durante l’amministrazione di George W. Bush, rappresenta per l’ex tycoon “un’opportunità storica per forgiare una pace duratura con l’Afghanistan”. Tuttavia, in una nota diffusa dalla Casa Bianca, si legge anche la volontà degli Stati Uniti di continuare a lavorare con i loro alleati e partner per “monitorare la situazione”.

Occhi puntati sui talebani

Tuttavia, anche se l’accordo è stato raggiunto, i timori sul futuro del Paese restano. Soprattutto da parte americana (e non solo). Il segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato, infatti, che gli afghani hanno diritto a vivere in pace e in prosperità, con l’obbligo di rispettare i diritti delle donne e l’America deve avere la garanzia che non vi sarà una minaccia terroristica dal Paese. “Mentre procederanno i negoziati intra-afghani, gli Stati Uniti monitoreranno attentamente le azioni dei talebani per valutare se i loro sforzi verso la pace sono in buona fede”, ha chiarito Esper. Che ha, però, aggiunto: “Se i talebani non rispetteranno gli impegni, perderanno la possibilità di sedersi con i loro compatrioti afghani e discutere sul futuro del loro Paese. E gli americani non esiteranno ad annullare l’accordo”.

Il ruolo della Nato

Il Consiglio del Nord Atlantico, cioè il massimo organo decisionale della Nato, ha fatto sapere di aver apprezzato i passi significativi che ha comportato questa ratifica. Ma  oltre ad aprirsi alla riduzione della propria presenza nel Paese “a determinate condizioni”, hanno chiesto soprattutto al gruppo fondamentalista di “cogliere questa opportunità di pace globale“. In questo contesto, l’alleanza ha sottolineato la volontà di implementare, insieme agli alleati nella missioni di addestramento, consulenza e sostegno delle forze di sicurezza afghane, una serie di “adattamenti a determinate condizioni”, tra cui una riduzione della loro presenza militare. La Nato ha poi ribadito il suo impegno a lungo termine in Afghanistan e il suo continuo appoggio alla difesa nazionale del Paese e alle sue forze di sicurezza.

Un’opportunità “da non perdere”

E a poche ore dalla conclusione della dichiarazione congiunta, anche l’Unione europea ha definito la firma uno dei primi “passi importanti” verso un accordo comprensivo per la pace nel Paese dell’Asia centrale. L’Ue ha chiesto alle parti di non perdere questa opportunità, che potrebbe creare un ambiente sicuro nell’area dopo anni di conflitto, sottolineando l’importanza di tenere fede all’impegno per la riduzione delle violenze: “L’Ue invita tutti gli attori a mettere l’interesse della nazione sopra tutte le altre considerazioni, come responsabilità collettiva di tutte le forze politiche afghane”.

Il 2001, quando tutto è cominciato

La guerra tra l’America e il regime talebano afghano iniziò nel 2001, subito dopo l’attacco al World Trade Center, l’11 settembre dello stesso anno. L’immagine degli aerei, lanciati contro le Torri Gemelle, nel cuore economico di New York, cambiarono per sempre i rapporti tra Oriente e Occidente. L’allora presidente americano, George W. Bush, ordinò al suo esercito di invadere l’Afghanistan, luogo in cui aAl Qaeda (gruppo terroristico guidato da Osama bin Laden e responsabile dell’attentato), in quel periodo, aveva le sue basi. Nel 2001, al Qaeda era l’organizzazione terroristica più potente e più temuta al mondo. La cellula, protetta dai talebani, godeva in Afghanistan di un certo supporto.

Il ruolo dei talebani

Le parti in causa, allora, erano tre: gli americani (colpiti), al Qaeda (e Bin Laden) e i talebani, che difendevano e sostenevano i terroristi (in chiave anti-occidentale). Il ruolo dei taliban (parola che, sia in arabo sia in pashtu, la lingua parlata in Afghanistan, significa “studenti“), in quel momento, si fece determinante, perché il regime controllava il Paese da qualche anno ormai. La “battaglia” del gruppo fondamentalista, nato anche grazie al contributo dell’intelligence pachistana, iniziò per contrastare l’invasione dell’Unione sovietica nell’area, cominciata nel dicembre del 1979 e durata quasi dieci anni. I talebani, così, iniziarono a operare all’inizio degli anni Novanta nel nord del Pakistan, per poi spostarsi, verso l’Afghanistan, conquistando (e occupando) diverse città. Kabul era stata presa nel 1996, dopo il rovesciamento del governo del presidente Burhanuddin Rabbani (che riuscì a scappare) e dopo l’assassinio dell’altro ex presidente Mohammad Najibullah (ucciso anche grazie a Bin Laden). In poco tempo, il gruppo fondamentalista riuscì a prendere praticamente il controllo del Paese.

La guerra (continua) tra Stati Uniti e talebani

Dopo l’invasione americana del 2001, il regime talebano (che nel Paese comportò diverse limitazioni dei diritti civili, soprattutto delle donne) subì diversi contraccolpi, in particolare dal punto di vista militare. L’esercito statunitense, molto più addestrato ed equipaggiato, fu la causa di diverse sconfitte per il gruppo fondamentalista. Al Qaeda, negli anni, spostò le proprie basi in Pakistan e i talebani (compresi altre cellule fondamentaliste) studiarono altri modi per attaccare gli americani. Iniziarono a intensificarsi le violenze contro i soldati statunitensi, le bombe (anche tra i civili) e una lotta che, nonostante fosse lacunosa sul piano strategico, si rivelò sfiancante per tutte le truppe straniere nel Paese. Per anni, violenze di ogni genere colpirono diverse aree del Paese e soprattutto i civili. Mercati, luoghi di culto, contingenti militari, strutture governative risultavano essere bersagli perfetti, in un campo di battaglia che mutava continuamente la sua forma. Percepita, insieme a quella in Iraq, una delle guerre contemporanee più violente e sanguinose, per tanto tempo nessuno è riuscito a pensare a una soluzione concreta per il raggiungimento della pace. E nemmeno quest’ultima firma è intesa o avvertita come il compimento di un processo pacifico definitivo e assoluto.

Lo scetticismo e i sospetti

In pochi, però, sembrano essere convinti dell’effettiva riuscita dei colloqui tra il governo di Kabul e i talebani (che non hanno mai dimostrato alcun tipo di benevolenza nei confronti dell’esecutivo nazionale). A livello internazionale, poi, non tutti hanno commentato positivamente il fatto di essere scesi a patti con il gruppo fondamentalista, che negli anni non ha quasi mai nascosto la barbarie dei propri gesti. Inoltre, in molti temono che il vero obiettivo dei talebani sia quello di prendere il controllo di tutto il Paese, sfruttando il ritiro delle truppe americane dal territorio. Non sono in tanti a credere alla possibilità di una vera cessazione delle violenze e, nonostante la richiesta formale dei vertici del gruppo fondamentalista di interrompere le ostilità il giorno della firma dell’accordo, si sarebbero registrati comunque altri attacchi. Il che svela due permanenti vizi di fondo: l’utilizzo delle armi come strumento di pressione ai negoziatori, ma anche la difficoltà dei vertici dei talebani di controllare tutti i miliziani (e le loro azioni). Di questo 29 febbraio 2020, comunque, l’immagine più evocativa e simbolica a rimanere impressa, al termine della firma,  sarà sicuramente il grido degli esponenti del gruppo fondamentalista. “Allahu akbar”, che significa “Dio è grande”.

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