Un apertura al dialogo ma a “determinate condizioni”: è questo quello che emerge nelle ultime settimane in Afghanistan da parte dei Talebani, l’organizzazione fondamentalista che controlla gran parte del paese ed a cui ormai sia Usa che Russia aprono per arrivare alla stabilizzazione dello Stato asiatico. Ad esprimere questa posizione lo stesso portavoce del movimento, Zabihullah Mujahid, il quale rilascia a tal proposito una significativa intervista a La Stampa.
“Sì al dialogo, ma jihad prosegue”
A Doha nei giorni scorsi si sarebbe dovuto tenere un vertice proprio tra talebani e governo. Una sede non certo casuale, il Qatar è l’unico paese infatti che ospita una rappresentanza diplomatica del gruppo integralista afgano. Ma l’incontro però risulta rinviato a data da destinarsi. A prescindere dai motivi che portano al provvisorio, per adesso, annullamento del vertice, Zabihullah Mujahid conferma comunque la volontà di trattare: “Speriamo che la conferenza si svolga come previsto. Si tratta di un incontro che può contribuire a raggiungere un’ intesa comune”, afferma a La Stampa il rappresentante dei talebani.
Mujahid parla di “diciotto anni di occupazione da superare“: è proprio questo il nodo principale da sciogliere in vista dei futuri incontri con i rappresentanti del governo guidato dal presidente Ghani. Gli Usa vengono percepiti come forza straniera di occupazione, che deve andare via dal paese: “La nostra condizione con gli Usa è quella di un dialogo diretto, in cui si parli in primis della fine dell’ occupazione – dichiara Mujahid – Senza questo elementi la jihad proseguirà”. Ed in effetti i talebani proprio nelle scorse settimane avviano la cosiddetta “offensiva di primavera“: si tratta di attacchi contro i simboli della presenza occidentale e dello Stato centrale che vengono perpetuati, con una certa regolarità da anni, alla fine dell’inverno. Un’offensiva che vuole mettere, adesso più che mai, sotto pressione le forze del governo centrale.
Lo spauracchio dell’Isis
Al potere a Kabul dal 1996 al 2001, i Talebani nascono come gruppo interno alla galassia islamista che negli anni ’80 combatte contro l’invasione sovietica. Il loro nome in lingua pasthun significa “studenti”, si tratta infatti di studiosi del Corano che applicano una rigida interpretazione dei testi sacri dell’Islam: per questo, durante il loro regime, a Kabul le donne vengono costrette ad indossare il burqa, gli alcolici vengono banditi e si ripristina la lapidazione per gli adulteri. Pur avendo dato ospitalità a Bin Laden, appaiono distanti sia da Al Qaeda che dall’Isis: il loro obiettivo è infatti un emirato in Afghanistan, non la lotta internazionale contro la jihad. Bombardati a seguito dell’11 settembre 2001 proprio per dare asilo allo sceicco del terrore, i Talebani vengono detronizzati da Kabul grazie all’avanzata della cosiddetta “Alleanza del nord”.
Ma nonostante la missione Nato e la presenza delle forze internazionali, il gruppo fondamentalista ad oggi controlla più della metà del paese ed appare quasi egemone nelle aree rurali. Per questo sia Kabul che la coalizione a guida Usa appaiono inclina al dialogo con i Talebani. Anche perché oggi in Afghanistan avanza l’insidia dell’Isis: assente nel paese fino al 2015, il gruppo terrorista oggi appare in ascesa specialmente in alcune zone del paese. Mujahid, nella sua intervista a La Stampa, appare molto sicuro sotto questo fronte: “Abbiamo i mezzi per affrontare l’Isis e sconfiggerlo, non abbiamo bisogno delle forze internazionali”.
Ancora una volta dunque, i Talebani si pongono come favorevoli al dialogo ed alla collaborazione a patto però che venga sancito il loro obiettivo considerato primario: il ritiro, in primis, delle forze Usa.