Lo storico accordo di pace tra Stati Uniti e talebani quasi sicuramente ridimensionerà l’impegno americano, ma difficilmente fermerà la guerra. Anzi. Ora l’Afghanistan è una preda che fa gola a molti, non solo agli eredi del Mullah Omar. Al banchetto potrebbero sedersi tutte le potenze regionali, il vicino Iran, il Pakistan e le petro-monarchie del Golfo, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, con anche l’ingombrante presenza dell’Arabia Saudita.

Il “cimitero degli imperi” com’è stato ribattezzato l’Afghanistan, è stato il teatro delle tensioni geopolitiche che hanno percorso tutta la regione per decenni. Molte cose sono cambiate nel corso degli anni, con alleanze rovesciate e ristabilite e Kabul che rimaneva al centro. Oggi più che mai la situazione dimostra che nuovi conflitti potrebbero essere alle porte, con il rischio di vedere il Paese trasformato in una nuova guerra per procura sanguinosa come quelle in Siria e Yemen. Il tutto all’ombra dei rivali di sempre: Teheran e Riad.

I capovolgimenti di fronte in oltre 30 anni di guerra

Per capire come mai un Paese come l’Arabia Saudita possa intervenire in un quadrante così lontano dal suo cortile di casa bisogna fare un passo indietro e tornare a 1979, quando l’Unione sovietica decise di intervenire in Afghanistan. Per tutti gli anni ’80 la monarchia saudita ha collaborato con gli americani in funzione anti-sovietica appoggiando con montagne di soldi i Mujaheddin, anche grazie alla collaborazione tra la propria agenzia di intelligence e quella pakistana. Durante quel periodo il Paese contribuì anche con un flusso di combattenti non indifferenti, come nel caso degli “afghani d’Arabia”, il gruppo di miliziani gestiti dall’Ufficio servizi creato fra gli altri da Osama Bin Laden.

L’Arabia strinse a sé l’Afghanistan anche nel dopoguerra e insieme a Pakistan ed Emirati diventò uno dei catalizzatori dell’ascesa talebana. Non a caso, dopo il 1996, i tre paesi furono gli unici a riconoscere il nuovo regime dei talebani. In quel periodo sull’altro lato della barricata c’erano Iran, Russia e Stati Uniti che appoggiavano l’Alleanza del Nord, una coalizione di forze che si opponeva ai talebani. La situazione rimase stabile solo per poco tempo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001, infatti, rimescolarono di nuovo le carte del grande gioco.

Gli effetti dell’11 settembre

L’attentato di al-Qaeda al cuore dell’America ha ridefinito tutte le alleanze della regione, con Riad e Abu Dhabi che si sono schierate apertamente con Washington nella guerra al terrore, di fatto scaricando il Mullah Omar. Nel corso degli anni l’Arabia ha poi cercato di spaccare quello che restava del movimento, nel frattempo schiacciato dagli americani e costretto a ritornare in clandestinità. Una decina d’anni dopo lo scoppio della long war americana le due monarchie del Golfo hanno tentato un approccio più pragmatico provando a trovare accordi di pace facendo leva sui governi afgani guidati da Hamid Karzai prima e Ashraf Ghani poi, ma senza successo. Tra il 2013 e il 2018 Emirati ed Arabia hanno provato anche a convincere i talebani ad aprire un ufficio diplomatico in uno dei due Paesi per avviare dei colloqui di pace. Alla fine, però, il gruppo ha scelto di puntare tutto sul Qatar, facendo andare su tutte le furie soprattutto lo sceicco Mohammed bin Zayed, principe ereditario degli Emirati, che è arrivato al punto da progettare di assassinare diversi leader talebani.

La nuova ascesa talebana

A cambiare ancora l’inerzia degli eventi è arrivata la nuova avanzata talebana. Dopo oltre 19 anni di guerra gli studenti del Mullah Omar riescono a controllare ancora parte del territorio. All’inizio del 2020, a ridosso dei colloqui finali con Washington, i talebani controllavano circa 74 distretti, a fronte dei 133 nelle mani del governo. Un controllo del territorio così capillare li ha quindi resi un interlocutore che non può essere ignorato. A questo punto Riad e Abu Dhabi si sono rese conto della necessità di essere più pragmatici e riallacciare i vecchi rapporti. La chiave di volta per ritornare a parlare con gran parte dei capi talebani, scottati dal tradimento post-11 settembre, è stata quella del Pakistan, che in tutti questi decenni non ha mai fatto mancare il suo supporto ai miliziani.

A fare gola all’Arabia Saudita è soprattutto una cosa: gli oltre 900 km di confine che dividono l’Afghanistan dal vicino Iran. Con il ritiro delle truppe americane, è il ragionamento che fanno dalle parti di Riad, ci potrebbe essere mano libera per stringere il cerchio attorno al nemico di sempre. I proxy sauditi potrebbero usare il Paese per lanciare attacchi contro la Repubblica islamica con uno stile non molto diverso da quello che fanno i ribelli sciiti houthi, che dal 2015 tengono impegnata l’Arabia in una lunga guerra proprio nel cortile di casa.

Attentati dal 29 febbraio al 17 aprile 2020. In blu gli attacchi talebani e in rosso quelli dello Stato islamico.

Le mire dell’Iran in Afghanistan

Lo scenario però non è così lineare. Sebbene nelle prime fasi del conflitto americano in Afghanistan Teheran abbia dato supporto all’Alleanza del nord e si sia offerto di addestrare 20 mila truppe del neonato esercito afghano, negli anni successivi all’invasione americana ha iniziato a intessere nuovi legami con i talebani. Il regime degli ayatollah ha inviato armi e munizioni nel Paese e una miriade di episodi isolati, ma affiancati, mostrano una crescente presa nel Paese. Ma andiamo con ordine. I primi contatti tra i miliziani e regime sono iniziati già nel 2000, ma si sono poi intensificati negli anni dell’invasione americana. Nel 2007 e 2011 la coalizione a guida statunitense ha intercettato due spedizioni di armi e munizioni dirette verso le forze talebane. Successivamente nel 2012 è stato aperto un ufficio dei talebani nella città iraniana di Zahedan. Nei momenti più intensi della guerra la porosità del confine ha dato ai miliziani la possibilità di trafficare da un paese all’altro denaro, merci e combattenti.

Negli anni il legame è andato rinsaldandosi, come ha dimostrato la morte del leader supremo Mullah Akhtar Mohammad Mansour, ucciso dai un raid americano il 21 maggio del 2016 in Pakistan. La sua esecuzione svelò in parte la nuova dipendenza dei talebani dal potere iraniano. Come ha scritto Foreign Policy, Mansour nei primi mesi del 2016 fece diversi viaggi in Iran. Alcune fonti parlavano di visite alla famiglia, mentre altre di visite mediche. Un segnale tutt’altro che banale perché indicava una certa diffidenza da parte dei vertici dei talebani ad appoggiarsi all’ingombrante alleato di sempre, il Pakistan. Questo aspetto infatti potrebbe essere una delle ragioni che hanno avvicinato talebani e iraniani. In particolare mostra che con ogni probabilità i primi puntano a una maggiore autonomia rispetto a Islamabad che se da un lato non ha mai fatto mancare il suo appoggio, dall’altro ha sempre avuto un controllo stringente sui capi delle milizie. Per Teheran questa operazione significa soprattuto lasciare aperta la porta in caso di un eventuale collasso del governo di Kabul.

I rischi dopo la morte di Soleimani

Phillip Smyth, ricercatore del Washington Institute, ha raccontato a Military Times che la morte di Qassem Soleimani avvenuta il 2 gennaio scorso ad opera di un drone americano, ha messo in modo una serie di meccanismi, in particolare dopo la nomina di Esmail Ghaani alla guida delle Forze Quds. Il segnale è che Teheran «sta guardando a est». Il 9 gennaio, nel corso di una conferenza stampa dei pasdaran a Teheran, sono state esposte in bellavista alcune bandiere con un forte messaggio simbolico: una iraniana, due dei guardiani della rivoluzione, una del movimento libanese di Hezbollah, una relativa ad Ansar Allah (i miliziani houthi appoggiati in Yemen), un’altra di Hashd al-Shaabi, le forze di mobilitazione sciite in Iraq, una di Hamas. E infine due rivelatrici: quella di Liwa Fatemiyoun, milizia composta ad afghani sciiti dispiegata durante la guerra in Siria, e quella di Liwa Zaynabioun, proxy iraniano composto da sciiti pakistani impegnati sui fronti della guerra civile siriana. Una messa in scena che allude a disegni più complessi anche perché è difficile valutare l’impatto delle politiche iraniane in Afghanistan. Non è chiaro quale sia la presa sui leader talebani, né è chiaro quale sia il peso che il Paese è in grado di giocare nelle operazioni militari degli allievi del Mullah Omar.

Me è certo che l’impegno crescerà e questo per almeno due ragioni: una militare e una economica. La prima riguarda la definitiva sconfitta dello Stato islamico, presente in Afghanistan con l’emanazione dell’Iskp, Stato islamico del Khorasan che Teheran vuole per scongiurare possibili attacchi sul suo territorio. La seconda ragione ha invece a che fare con le sanzioni americane. Le imprese iraniane strangolate dalla crisi guardano a possibili sbocchi proprio in Afghanistan, un territorio con somiglianze sociali e culturali che potrebbe aiutarle a rifiatare.

Teheran nel tempo ha però lavorato anche a stretto contatto con il governo di Kabul. Oltre ai Pashtun, che rappresentano circa il 38% della popolazione, le autorità iraniane hanno relazioni positive con gli altri gruppi etnici come le comunità tagike, uzbeke e hazare, tutte rappresentante nel governo afghano. Già dal 2008, si legge in un rapporto del 2012 realizzato dall’Institute for the Study of War, Teheran ha aumentato gli investimenti in terra afghana, in particolare nelle infrastrutture, nell’industria e nell’estrazione mineraria, arrivano in un decennio a raddoppiare le esportazioni. Non solo. Negli anni è arrivato a firmare anche un accordo di cooperazione in materia di Difesa con il governo locale. Le incognite sui futuri colloqui intra-afghani restano molte. Al momento la pandemia da coronavirus ha avvicinato talebani e governo di Kabul, coi miliziani molto attendi a fornire informazioni e facilitare le operazioni sanitarie per contrastare l’epidemia. È ovviamente presto per dire se il modello di collaborazione possa essere replicato in ambito politico. Ma in questo caso proprio l’Iran potrebbe porsi come mediatore tra i due. 

Il gioco del Pakistan in Afghanistan per arginare l’India

Oltre al confronto tra Iran e Arabia Saudita, l’Afghanistan rischia di diventare la scacchiera anche per altre due potenze, in testa il Pakistan. Islamabad, ha spiegato l’ex agente della Cia Douglas London al New York Times, vuole focalizzarsi nel Paese per limitare l’influenza dell’India. Ma l’operazione potrebbe non essere così semplice. il Pakistan, anche per via dei legami costruiti durante la guerra civile negli anni ‘90 coi talebani tramite il proprio servizio di intelligence, preferisce dialogare con loro anziché col governo di Kabul, ma sa bene che un’ascesa sanguinosa dei miliziani rischierebbe attirare Nuova Dehli.

Per questo, l’equilibrio ideale sarebbe quello di un caos a bassa intensità, ha spiegato ancora London, ma l’operazione è tutt’altro che semplice. L’Isi, i servizi pakistani, si dicono convinti che i talebani non siano più quelli di Omar, ma più pragmatici, meno violenti, quasi simili a un partito politico. Le mosse anti indiane hanno a che fare con la complessa situazione in Kashmir. Islamabad è convinta che l’India si sia infiltrata troppo negli affari afghani e che il supporto al governo di Kabul sia anche una scusa per accerchiare il Paese. La politica indiana dal canto suo, ha investito miliardi per appoggiare uno stato centrale in Afghanistan addestrando truppe, costruendo infrastrutture, e lavorando contro le milizie. Per la politica indiana un eventuale rovesciamento del governo a Kabul potrebbe avere un effetto a catena soprattutto sui gruppi islamisti che operano nel Kashmir controllato dal Pakistan, con un effetto che destabilizzerebbe un quadrante molto delicato.

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