Dal 2017 alla guida di Hayat Tahrir al-Sham (o Hts, Organizzazione per la liberazione del Levante) una formazione combattente di matrice salafita impegnata nella guerra civile siriana, Abu Mohammad al-Julani controlla la roccaforte ribelle di Idlib nel nord-ovest della Siria al confine con la Turchia. L’ex militante dell’Isis che ha combattuto in Iraq e Siria professa oggi di aver chiuso con il jihadismo e l’estremismo religioso, e si rivolge alla stampa internazionale nelle vesti di governatore civile e secolare della provincia siriana che si oppone al governo di Bashar al-Assad. Dietro alla sua strumentale trasformazione da fondamentalista bombarolo a rappresentante della resistenza al “tiranno di Damasco”, una narrazione propagandistica finemente studiata mira a legittimare il controllo della sua organizzazione armata sulla Siria nord-occidentale.
La narrazione di al-Julani braccata dall’ombra del suo passato
Operando istituzionalmente attraverso il Governo siriano di salvezza, al-Julani presenta Hayat Tahrir al-Sham come attore dalle sembianze simil-democratiche, capace di regolare, tassare e fornire servizi alla popolazione civile di Idlib. Il nome stesso dell’organo trae in inganno, poiché tale “governo” rappresenta in realtà meccanismi imposti sul territorio in maniera arbitraria e violenta, che rafforzano e arricchiscono gli alti ranghi della milizia, reinventati funzionari di Stato.
– CHE COS’È –
Hayat Tahrir al-Sham (Hts)
Etichettata come organizzazione terrorista dalle Nazioni Unite, la milizia Hts nasce dopo il 2011 come sviluppo siriano di Al Qaeda in Iraq (Fronte al Nusra), quando al-Julani stesso accettò l’incarico da Abu Bakr al-Baghdadi. Nel 2016 il gruppo si è distaccato ufficialmente da Aqi per diventare una realtà indipendente (“per rimuovere il pretesto usato dalle potenze estere come Stati Uniti e Russia per bombardare i siriani” disse al-Julani in quell’occasione). Nel 2017, insieme ad altre quattro milizie islamiste siriane minori, Jabhat al Nusra è confluito nella formazione Hayat Tahrir al-Sham.
La narrazione di solidarietà e resistenza che ora propone (“questo governo è figlio non solo di Hts ma anche della volontà di un grosso segmento di civili nelle aree liberate, che lavorano notte e giorno perché gli sfollati possano tornare a casa al sicuro” diceva due anni fa a Pbs) è presto smentita se si guarda al recente passato di al-Julani, quando lui stesso seminava il terrore sotto le insegne di al-Qaeda prima, e dello Stato Islamico poi.
La sua attuale posizione di potere non è infatti frutto di un consenso popolare per il suo “governo di salvezza”, ma deriva direttamente da quella carriera jihadista che descrive caparbiamente come chiusa e legata al passato. Per quanto la sua comunicazione sia incentrata sulla proiezione di un’immagine istituzionale, una valutazione della sua credibilità non può prescindere dal suo passato da terrorista, e deve tener conto della tendenza dei metodi jihadisti ad adattarsi alle circostanze e a mimetizzarsi.
La metamorfosi
ll trasformismo di Abu Mohammad al-Julani lo ha portato a cambiare vesti e posizione più volte, e gli abiti scuri del jihadista col tempo sono diventati di quel verde militare che associamo oggi al presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
La carriera da terrorista è cominciata nelle carceri irachene di Abu Ghraib e Camp Bucca dove, incarcerato per aver preso parte alla ribellione sunnita contro l’occupazione militare americana, ha catechizzato e fidelizzato i compagni di sezione fino a crearsi un seguito personale all’interno dell’insurrezione e farsi notare da Abu Bakr al-Baghdadi, facendosi affidare la missione siriana. Le immagini dei tempi di Jabhat al Nusra lo ritraggono in mimetica e con il capo coperto dal guthra (un velo quadrato disteso o annodato come un turbante) o con la semplice taqiyah e la barba scura portata lunga. In queste vesti concesse un video ad Al Jazeera nel 2015, nel quale annunciava la rottura con al Qaeda e la formazione di Jabhat Fath al Sham, precursore di Hayat Tahrir al-Sham.
Un passo importante per epurare la sua immagine pubblica dai connotati radicali salafiti è rappresentato dalla prima intervista rilasciata all’americana Pbs nel 2021, in cui si presenta in abiti civili e senza copricapo. Davanti all’intervistatore statunitense rifiuterà categoricamente la definizione di “terrorista” in nome della quale la Casa Bianca ha piazzato su di lui una taglia da 10 milioni di dollari, e ripeterà con un’insistenza poco credibile la distanza presa dal jihad globale: “lo dico e lo ripeto, l’era di coinvolgimento con al-Qaeda era temporanea ed è finita, e anche quando ne facevamo parte, gli attacchi esterni sono sempre stati contrari alla nostra policy”.
Eloquente del suo lavoro di pulizia d’immagine è una clip risalente ai giorni successivi al terremoto di inizio febbraio che ha colpito duramente l’area di Idlib. Nel video invita le Nazioni Unite a fidarsi del corridoio di Bab al-Hawa per mandare gli aiuti umanitari che il governo di Damasco aveva chiesto di gestire unilateralmente.
Nello stesso outfit ha concesso l’ultimo ritratto fotografico ad un’intervistatore di France24, al quale ha descritto Idlib come città nuova, tollerante, aperta alle altre confessioni con una narrativa marcatamente propagandistica in cargo e t-shirt verdi, che ricordano molto il presidente ucraino con cui il sedicente ex-jihadista condivide sia l’outfit che l’odio per le bombe russe.
La minaccia migratoria
Il fragile equilibrio che si è cristallizzato a Idlib ha lasciato ad al-Julani e ai suoi lo spazio per consolidare il controllo sul territorio. Il governo di Damasco è fiaccato da lunghi anni di conflitto civile ed è stato messo a dura prova dalla crisi prodotta dal terremoto; il suo principale supporter, la Russia di Vladimir Putin, sta concentrando i propri sforzi sul fronte ucraino, mentre l’alleato iraniano è sempre più isolato dalle sanzioni occidentali. Inoltre, per la sua conformazione, il territorio rappresenta un teatro bellico assai complesso da attaccare.
Il mantenimento di questo status quo a bassa tensione permette di mantenere sotto controllo i flussi migratori, che rimangono il maggior elemento di minaccia a disposizione del governo di Idlib. Va infatti ricordato che nel picco della crisi migratoria che ha investito l’Europa e in particolare l’Italia nel 2015, il 50% dei profughi ammassati nei barconi che attraversavano il Mediterraneo erano siriani in fuga dal conflitto.

Il conflitto risulta per ora congelato, ma rimane forte il rischio che a dispetto della narrazione proposta da Hts la roccaforte di Idlib nasconda ancora un irriducibile nucleo jihadista che prospera nelle montagne siriane minacciando la stabilizzazione del Paese.