Kandahar (Afghanistan). A mezzogiorno Shahid Dan, la piazza dei martiri, è un inferno. Donne in burqa spingono le figliolette, trasformate in questuanti. Bimbi e anziani in bici arrancano tra gas di scarico che bruciano la gola, mentre branchi di mostruosi e variopinti «Apecar» adibiti a taxi si contendono i clienti. In questo girone infernale, arroventato da un sole a 45 gradi, una rotonda ombreggiata custodisce le tombe dei combattenti caduti per mano di russi, inglesi e americani. E sopra le tombe di tre diversi secoli un’enorme bandiera bianca con i versi della «shahada», la professione di fede in Allah e nel Profeta, annuncia il nuovo ordine politico e religioso.

Ma a Kandahar i talebani non possono accontentarsi di far garrire le bandiere. Nell’antica capitale culla del proprio potere i talebani hanno bisogno di offrire segnali forti. Il più forte resta, per ora, quello annunciato dalla sirena della «guardia nazionale» che a mezzogiorno fende il traffico con una ventina di pick-up verde militare. Mentre automobili, biciclette e questuanti si fanno da parte, i gendarmi seduti sul cassone con i mitra spianati fendono il catino rovente.

Ma davanti ai giornalisti ecco il corteo frenare, mettersi da parte. Qualcuno abbassa l’obbiettivo per metter mano a passaporti e accrediti dell’emirato. Non è un controllo, bensì un invito. Fedeli alle istruzioni dei propri capi, i militari esibiscono il volto gentile da «tale-buoni». «Salite vi portiamo con noi», urla sorridente un ufficiale. Così obbiettivi e telecamere si mescolano ai kalashnikov mentre la sarabanda armata e mediatica attraversa la città.

Le esibizioni di forza sono anche il segnale della debolezza di un regime capace, fin qui, di offrire ben poco a gran parte della popolazione. Qui a Kandahar, oltre a non aver pagato mezzo stipendio ai dipendenti statali, come nel resto del paese, hanno diffuso ansie e paure. Il ventilato esproprio di centinaia di abitazioni, occupate da un ventennio dai funzionari statali, sta moltiplicando i timori di un’imminente vendetta nei confronti di chi lavorava per gli esecutivi legati agli americani. Un timore che si fa terrore tra quanti hanno familiari all’estero. «Qui le vendette sono già iniziate. Da quando mio fratello è fuggito non fanno altro che minacciare di sequestrarmi la casa», racconta Abdul, fratello di un ex-funzionario governativo riparato in Europa.

A rendere tutto più incerto contribuiscono le divisioni del movimento sfociate, secondo le voci, in uno scontro armato tra le fazioni alqaidiste legate al clan del ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani e il vice-premier Mullah Abdul Ghani Baradar, icona di un presunto nuovo corso moderato. Uno scontro in cui sarebbero volati i proiettili e da cui Baradar sarebbe uscito malconcio. Nur Mohammad Said, il ministro dell’informazione per la provincia di Kandahar, ovviamente nega tutto. “Noi talebani – spiega a InsideOver – siamo una grande famiglia, abbiamo delle difficoltà, ma siamo uniti. Il Mullah Baradar sta bene ed è qui a Kandahar”. Sul fatto che sia vivo c’è da credergli.

La sera prima lo stesso Nur Mohammad Said, improvvisatosi giornalista, ha intervistato Baradar per conto della tv afghana. Ma proprio la presenza del vice premier a Kandahar, anziché in una Kabul sotto il giogo degli Haqqani, fa capire quanto incerti siano i rapporti di forza interni al movimento. Sulla scena di Kandahar non si è ancora palesato quel «leader spirituale» Hibatullah Akhundzada a cui spetterebbe il ruolo di Suprema Guida. Un’assenza intorno alla quale si addensano le voci di una morte prematura o di una forma di Covid. Ma la debolezza di Baradar rischia di cancellare le speranze di un presunto governo «inclusivo». E con esse la disponibilità del ricco Qatar a garantire il patrocinio politico-economico di un Emirato condannato, di questo passo, a ritrovarsi confinato nei recinti dell’antica, ma miserabile Kandahar.