È stata una missione suicida quella dei giovani sventurati dell’armata russa spediti nella foresta radioattiva di Chernobyl. Scoperti a maneggiare qualcosa di raro e letale che sembrerebbe non conoscessero affatto, e che adesso potrebbe costargli la vita. La stampa internazionale continua a riportarli come uomini “privi della preparazione necessaria” e senza “niente da perdere”. Ma se così non fosse e dietro i furti registrati nei siti nucleari si celasse la losca intenzione di mettere a segno un affare pericoloso?
Mentre Kiev denuncia la sottrazione di materiali altamente radioattivi dalla centrale dove si verificò il tragico incidente del 1986, l’ipotesi che qualcuno abbia preso dei “souvenir”, travalicando il limite della stupidità che lo stesso Albert Einstein (tra i creatori della bomba atomica, ndr) giudicava illimitata come lo spazio, lascia un margine ad preoccupazione remota: forse qualcuno ha provato ad inserirsi, suo discapito, nel contrabbando di materiale radioattivo. Quel materiale che può servire – o si crede possa bastare – per creare una bomba, magari sporca. Da sempre terrore delle grandi potenze con molti nemici. Ciò che è certo, è che a Chernobyl i russi hanno riaperto un pericoloso vaso di Pandora: quello che contiene le scorie e lo spettro della proliferazione nucleare.
Una missione suicida per i soldati di Mosca
“Hanno scavato terreno nudo contaminato da radiazioni, raccolto sabbia radioattiva in sacchi per la fortificazione, respirato questa polvere”, ha denunciato con sgomento il ministro dell’Energia dell’Ucraina, German Gulashchenko. “Più precisamente, non di vita ma di una lenta morte per malattia” ha proseguito, sancendo la fine degli sventurati soldati che sono stati mandati alla morte nell’obiettivo strategico che una volta preso doveva terrorizzare non soltanto Kiev, ma l’intera Europa continentale che ancora non ha superato il dramma di quel 1986; e convive silenziosamente con il fantasma dell’incidente nucleare che i sovietici sottovalutarono nella sua letale entità.
Il contingente russo di stanza alla centrale di Chernobyl, giunto su bulldozer e carri armati, avrebbe “sollevato” e molto probabilmente inalato polvere radioattiva. “Sono arrivati e hanno fatto quello che volevano. Abbiamo cercato di avvisarli che era pericoloso, ma ci hanno ignorato”, ha denunciato il personale tecnico ucraino che attraverso i contatori geiger ha registrato livelli di radiazioni che superano di 10-15 volte gli standard. Anche solo “una piccola parte” di questo genere di materiali può rivelarsi “mortale se gestita in modo non professionale” ha tenuto a specificare l’Agenzia ucraina per la gestione della Zona di Esclusione.
Per i membri delle forze armate russe che hanno combattuto per conquistare e occupare il sito nucleare potrebbe essere troppo tardi. Sia per coloro che hanno “scavato trincee nella Foresta Rossa”, sia per coloro che si sospetta abbiano trafugato materiale radioattivo da laboratori, aree di stoccaggio e depositi di vario genere. Dovranno affrontare “malattie da radiazioni di varia gravità per i prossimi 30 giorni” spiegano gli esperito. La maggior parte potrebbe non avere un anno di vita. Ma sembra impossibile che nessuno immaginasse a cosa andavano incontro.
“Ogni soldato russo porterà a casa un pezzo di Chernobyl. Morto o vivo” ha affermato Gulashchenko. Ricordando come lo stesso equipaggiamento impiegato dai militari sia contaminato e sufficiente a contaminarne altri. Secondo quanto riportato dal New York Times, l’ingegnere capo per la sicurezza della centrale Valeriy Simyonov ha raccontato di un soldato russo di un’unità NBC sorpreso a “prelevare a mani nude” una fonte di cobalto-60 in un deposito di rifiuti nucleari. Un contatto di pochi secondi come questo è sufficiente ad esporlo ad un rischio mortale. “L’ignoranza dei soldati russi è scioccante” hanno concluso gli ucraini. Ma rischiamo di dover fare i conti con una verità ancora più scioccante, perché ora che la centrale di Chernobyl è tornata sotto il controllo di Kiev (dopo la ritirata del 31 marzo), sembrano mancare all’appello un gran numero di sostanze altamente radioattive rubate dai laboratori di ricerca. Sono tutte considerate potenzialmente letali. Cosa credevano di farsene i russi?
L’incubo del “bazar atomico”
Non appena il crollo dell’avversario sovietico fu concepito dall’Occidente come il risultato della più lenta ma allo stesso tempo ben giocata partita a scacchi della Storia, qualcuno iniziò a materializzare con la sua fervida immaginazione quel che poteva essere un rischio mai pensato prima: cosa sarebbe stato delle testate nucleari che Mosca aveva sviluppato e immagazzinato con il suo temibile programma nucleare per mezzo secolo di Guerra fredda in vista della guerra totale? Ma soprattutto, cosa sarebbe stato di tutto il materiale radioattivo che poteva consentire ad una potenza di “sviluppare” una bomba atomica?
A scongiurare questo genere di minacce si è impegnata per anni un’agenzia statunitense poco nota ai più, la NNSA (United States National Nuclear Security Administration). Che fa capo al dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, a sua volta in stretta collaborazione con la più nota AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica). A rispondere a quelle domande, tentando di quietare il timore di una “fuga o furto” di materiale radioattivo, che sia uranio arricchito, plutonio, o cobalto, ci ha pensato una grande firma del giornalismo internazionale, il saggista William Langewiesche che nel 2007 pubblicò il libro “Il Bazar Atomico” (Adelphi). Spiegando tra le altre quale sia la genesi della proliferazione nucleare che terminata la Guerra Fredda ha orientato gli equilibri e l’ascesa di nuove potenze come il Pakistan.
Chi lo ha letto sa di cosa stiamo parlando. Chi non ne ha avuto il piacere e si è invece imbattuto in titoli di giornale come “Allarme a Chernobyl”, oltre che per il destino dei soldati che hanno maneggiato a “mani nude” materiale radioattivo, dovrebbe iniziare a preoccuparsi per il destino delle sostanze altamente radioattive che sono state rubate da Chernobyl e che potevano essere trafugate dagli altri siti nucleari ucraini – delle quali attualmente non si hanno tracce e non sono state ottenute o divulgate informazioni precise.
I soldati russi che hanno occupato Chernobyl probabilmente non hanno letto il saggio di Langewiesche. Né conoscevano il rischio al quale si stavano sottoponendo – considerando che hanno scavato dei trinceramenti nella foresta rossa poco distante della centrale, dove anche i turisti sanno di non doversi trattenere per più di un’ora. Ma forse sapevano – non è da escludere – che qualcuno avrebbe pagato per quel materiale raro, severamente controllato ed estremamente prezioso per qualsiasi potenza (o frangia estremista) che a differenza di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, India, Pakistan, quasi certamente Israele, e più che probabilmente Corea del Nord non ne è mai entrato in possesso.
Un’ipotesi spaventosa ma improbabile?
Ad ora l’Agenzia nucleare ucraina ha riferito che le truppe russe sono entrate in un’area di stoccaggio della base di ricerca e hanno sottratto 133 sostanze altamente radioattive. Comunicando che “il posto in cui sono state portate le sostanze rubate è al momento sconosciuto”, secondo quanto affermato dal ministro dell’Energia ucraino German Galushchenko.
Non è stata mai fatta menzione dell’ipotesi di un furto con movente, ma è lecito pensare che i membri di un’unità NBC dell’Esercito russo – ossia operatori esperti di armi chimiche, nucleari e biologiche – fossero al corrente del tipo di materiale che avevano sotto gli occhi. Conoscendone la pericolosità ma anche il valore sul mercato clandestino delle armi. Un mercato al quale non è certamente facile accedere. E dove le criticità nel portare a termine non affare non appartengono solo al difficile reperimento dei materiali più controllati del mondo, ma anche alla capacità di trovare un acquirente sicuro (ricorda nel libro una fonte israeliana, forse appartenente al Mossad).
In passato alcuni casi di furto e contrabbando di materiale radioattivo sono stati sventati e documentati. Spesso collegati ad ex membri dell’ Fsb (o del precedente Kgb) che avrebbero trovato il modo di sottrarre da vecchi siti di stoccaggio delle barre di plutonio. Nel saggio di Langewiesche questa evenienza del furto di materiale per “bombe atomiche” non solo viene menzionata, ma anche spiegata nei suoi processi. Per quanto estremamente complesso, remoto e fallibile, il modo di estorcere attraverso corruzione del materiale radioattivo da “città chiuse” (o ex città fortezza nucleari sovietiche, ndr) come Ozersek ad esempio, c’è sempre stato. Attraverso il Caucaso meridionale, passando per stati come Georgia, Azerbaijan, Armenia, l’obiettivo dei trafficanti di materiale radioattivo sarebbe sempre quello di raggiungere i principali porti della Turchia. Dove incontrare i famigerati mercanti d’armi internazionali, nella speranza di poter “vendere” la prova di un carico di materiale fissile. Secondo le conclusione dell’autore, raggiunte con l’ausilio di fonti classificate, il più delle volte questi ladri di materiale atomico si sarebbero accontentati di vendere un “campione” per poi dileguarsi con una valigetta piana di dollari americani. Questo perché si sarebbero sempre trovati privi della quantità o qualità necessaria da materiale da fornire ad un acquirente con un obiettivo preciso.
È impossibile conoscere il motivo per cui i russi abbiano sottratto materiale radioattivo potenzialmente letale per per chiunque qui lo maneggi. Forse non scopriremo mai quale sarà il loro destino, l’entità del furto e la sua ultima meta. Quello che possiamo accertare è che l’occupazione di siti nucleari da parte di scellerate componenti dell’esercito potrebbe celare conseguenze inimmaginabili se non condotti con la professionalità necessaria. Mosca sembra aver completamente sottovalutato questo rischio.