È il 4 ottobre del 2017. Quattro soldati americani sono nel deserto del Niger, lontani dalla loro unità. Sono in minoranza e lottano per restare vivi. Su di loro una raffica di spari dei combattenti dello Stato islamico, armati di fucili d’assalto. Indossano sciarpe e passamontagna. Il sergente di squadra, Bryan C. Black si abbassa e si muove rapidamente. Cerca di ripararsi dietro il suv nero guidato dal soldato Dustin M. Wright che guida cercando di schivare i proiettili. Passano i secondi e Black cade a terra. “Black!”, urla un terzo soldato americano. È l’altro sergente di squadra Jeremiah W. Johnson. Si avvicina e prova a scuotere il compagno, ma Black rimane immobile. Non risponde. Wright e Johnson a quel punto iniziano a correre, inseguiti dai proiettili. Johnson viene colpito. Cade a terra ma è ancora vivo. Wright si ferma e, contro ogni speranza, si gira e inizia a sparare con la sua carabina M4 verso i terroristi. Fino alla fine.
Questi gli ultimi minuti dei 3 militari americani morti in Niger. A ripercorrere questi attimi drammatici è il New York Times grazie alla ricostruzione fornita da un telecamera inserita su un elmetto dei militari. Il quarto soldato, il sergente La David Johnson, ha perso la vita nello stesso attacco, ma in quel momento non si trovava con il gruppo.
Per l’America è la più grossa perdita sul campo africano dalla sconfitta della battaglia di Mogadiscio del ’93 chiamata “Black Hawk Down”, da cui l’omonimo film premiato con due premi Oscar. Ad oggi sono ancora tante le domande su quei momenti, ma ciò che è sicuro è che questi soldati, insieme ad altri quattro militari nigerini e un interprete, sono morti in un conflitto che molti ignoravano.
Secondo quanto dichiarato da alcuni ufficiali del Dipartimento della Difesa, i soldati americani si trovavano in Niger, esattamente nella località di Tongo Tongo, solo per assistere e allenare i militari nigerini e svolgere delle “missioni di “ricognizione”.
Gli errori dell’Intelligence e dei comandanti sul posto
Sempre come riporta il quotidiano statunitense, alla base della morte dei 4 militari Usa ci sarebbero quindi una serie di errori dell’Intelligence e dei comandanti sul posto.
Quel tre ottobre i soldati partono per una missione improvvisata dopo aver ricevuto informazioni sul nascondiglio di un leader terroristico collegato al rapimento di un cittadino americano.
All’ultimo minuto, però, il piano di mandare un team con gli elicotteri viene cancellato e i comandanti militari decidono – e qui l’errore strategico – di inviare la pattuglia che si trovava nella zona. I militari partono allora dalla base con poche armi pesanti, senza un equipaggiamento adeguato e con un mezzo non corazzato. La pattuglia arriva sul posto indicato dall’Intelligence ma non trova nessun militante: l’errore dei servizi.
I militari, poi, esauriscono le scorte d’acqua – preparate per un missione che doveva essere breve e sbrigativa – e così si vedono costretti a fermarsi in un villaggio sulla via del ritorno. Quando si rimettono in marcia, però, ha luogo l’agguato mortale.
“Guerra infinita e senza confini”
È il 14 settembre del 2001 e la cenere avvolge ancora le strade di New York quando il Congresso vota con maggioranza schiacciante la missione dell’esercito statunitense. L’obiettivo era uno: cacciare i responsabili del più grande attacco terroristico nella storia degli Stati Uniti. Una missione circoscritta, dunque, che negli anni, però, è diventata una guerra globale contro gruppi di jihadisti che 16 anni fa non esistevano nemmeno.
Pochi giorni dopo l’agguato, la Nbc intervista il senatore repubblicano della Carolina del Sud Lindsey Graham: “Non sapevo ci fossero 1000 militari americani in Niger”, afferma. Che in realtà, poi, sono 800 i soldati sul posto. “Questa è una guerra infinita, senza confini e limiti di tempo o geografici”. Stessa perplessità anche da parte dei suoi colleghi democratici, tra cui Chuck Scumer: “Non sapevo ci fossero così tante truppe in Niger”. Il portavoce del Pentagono, Dana W. White, non ha vuole rilasciare alcuna dichiarazione fino a quando non sarà conclusa l’inchiesta.
Il report militare sull’agguato mortale di ottobre avrebbe dovuto essere pubblicato a gennaio ma è ancora sotto revisione. Il Segretario alla Difesa americano, Jim Mattis, ha detto che il documento è composto da “migliaia di pagine”. Ora si dovrà vedere se tutte queste pagine saranno in grado di dimostrare quanto è stato dichiarato da ben tre diverse amministrazioni americane, ovvero il fatto che i militari statunitensi si trovano in molti di questi luoghi lontani non per combattere – e rischiare la vita – ma solo per allenare le milizie locali contro i terroristi.