Come il gatto del paradosso di Schroedinger il tetto europeo al prezzo del gas è, a seconda di quando lo si guarda e dalle prospettive da cui lo si approccia, alternativamente vivo e morto.
Vivo nel senso che le discussioni europee in materia sono state avviate, che la volontà politica di arrivare a una regolamentazione delle dinamiche di prezzo è presente, che c’è consenso sulla necessità di una svolta.
Morto, però, perché tale rischia di essere qualsiasi compromesso se non sarà accompagnato dai necessari contrafforti e dalla complementare visione politica. E proprio qui si rischia il blocco politico: ogni discussione più approfondita sta portando con sé il rischio di spaccare i Ventisette.
I Paesi che vogliono un tetto al prezzo del gas importato si rifiutano di sostenere altre misure come l‘acquisto congiunto di forniture fino a quando la Commissione europea non delineerà maggiori dettagli sul tetto stesso. Temono, non del tutto a torto, che i burocrati alfieri del libero mercato che percorrono i corridoi della Commissione al Palazzo del Berlaymont si oppongano all’idea e non presenteranno una proposta realistica di price cap.
A questo, ricorda il Financial Times, si sommano i timori della Germania, Paese che crede che gli esportatori di oro blu “porterebbero il loro gas altrove se l’Ue imponesse un prezzo massimo”: Berlino è in bolletta energetica, soffre la crisi del Nord Stream, rischia un inverno di fibrillazioni ed “è probabile che blocchi qualsiasi scelta suggerisca Bruxelles”.
Gli Stati membri scettici nei confronti di un limite di prezzo ritengono che la sua creazione dovrebbe essere subordinata a otto criteri rigorosi delineati nella proposta originaria della Commissione, lunga ben settanta pagine, tra cui tre ritenuti imprescindibili citati dal Ft: “il tetto non dovrebbe mettere a repentaglio la sicurezza dell’approvvigionamento, non dovrebbe aumentare i consumi e non dovrebbe incidere sui flussi di gas all’interno dell’Ue”.
C’è poi il fatto che da tempo il mercato del gas europeo ha anticipato la possibilità di un accordo e aperto nella determinazione del prezzo a uno sgonfiamento dei livelli record toccati tra agosto e settembre. Ma senza sminare anzitempo il terreno da queste contraddizioni il Consiglio energetico di emergenza il 24 novembre potrebbe risolversi in un fiasco senza accordo e il prezzo del gas potrebbe salire perché il mercato risponderebbe negativamente.
Il fatto che Paesi come la Germania tirino dritto sui propri pacchetti privati, poi, complica la questione. Lo scudo energetico tedesco, annunciato dal Cancelliere Olaf Scholz per attutire l’impatto dell’inflazione entrerà in vigore all’inizio del 2023. Il tetto ai prezzi di gas ed elettricità è la parte principale del controverso “bazooka” energetico da 200 miliardi di euro annunciato da Berlino a fine settembre e sarà operativo tra gennaio e marzo. Per Bruxelles questo aggiunge un ulteriore strappo in salita da affrontare nelle trattative.
Il rifiuto pregiudizievole della Commissione di includere il modello iberico di price cap e la continua indolenza sul decoupling dei mercati, che imporrebbe un ripensamento delle regole di concorrenza, capace di separare il costo dell’elettricità da rinnovabili da quello da gas e altre fonti fossili fa nascere zoppo ogni compromesso. Mario Draghi in estate aveva proposto di sciogliere il nodo gordiano con un tetto netto e poco flessibile ma che avrebbe avuto il privilegio della chiarezza.
Ora c’è il rischio che la montagna partorisca il topolino e si finisca per irritare non solo la Russia ma anche quei Paesi vincitori della corsa alle esportazioni di gas e che non vogliono saperne di rimodulare i prezzi, prima fra tutte la Norvegia. Così facendo si darebbe spazio a mercati altamente speculativi come il Ttf per continuare a operare e non si sanerebbero i vulnus strutturali del mercato dell’energia europea, schiacciato tra dipendenza dall’estero e imprevedibilità interna. Il “tetto” incompleto della Commissione e le rivalità tra gli Stati rischiano di far proseguire uno status quo destinato a farsi problematico qualora i prezzi crescessero in inverno dopo aver già costretto gli Stati a spendere centinaia di miliardi di euro per difendere i propri sistemi produttivi dalla crisi delle forniture.