Il tempo del requiem per il petrolio non è ancora arrivato. E se è da tempo appurato che, così come l’età della pietra non è finita per carenza di pietre, l’età del petrolio non finirà per l’esaurimento del petrolio, è anche giorno dopo giorno sempre più evidente che nel suo complesso la stagione dei combustibili fossili conoscerà su scala mondiale un proseguimento nell’era della transizione energetica.
Il “superciclo” del petrolio
Jp Morgan e Goldman Sachs vedono possibili per l’anno in corso scenari con il prezzo del greggio Brent e Wti prossimo a salire fino a 100, o addirittura 125, dollari al barile entro il terzo trimestre, a due anni di distanza dallo sconvolgimento dell’inizio della pandemia che aveva condotto il valore del greggio texano Wti addirittura in territorio negativo.
Nel nuovo superciclo delle materie prime legato alla battaglia per la transizione energetica e alla sfida geopolitica del gas naturale, insomma, ci sarà ancora spazio per“Re petrolio”. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato che la produzione di petrolio è salita del 4,6% tra settembre 2020 e 2021. Oggigiorno, così come si arriva ad estrarre più carbone per far fronte allo shock dei prezzi, si rimette in moto il mercato del petrolio sia nel contesto dei carichi pronta consegna (spot) che negli accordi tra compagnie e majors. Nello stesso periodo studiato dall’Iea i prodotti raffinati sono cresciuti del 6,6% e le consegne totali sono aumentate dell’8,4%. Già alla fine dell’estate scorsa analisti, nota Gianni Bessi su StartMag, “affermavano che la domanda mondiale ritornerà alla quota precedente alla pandemia, cioè circa 100 milioni e passa di tonnellate”, pronosticando che tale quota potesse addirittura esser superata nel 2022. Previsione che si avvicina alla realtà stando alle ultime analisi: “Ci aspettiamo che la domanda di petrolio cresca a 100,23 milioni di barili al giorno nel 2022, con un aumento di 3,5 dal 2021 e ampiamente al di sopra dei livelli del 2019 di 98,27”, ha scritto Schroders, uno dei principali colossi dell’asset management a livello globale.
La domanda però è e sarà difforme a seconda delle aree geografiche: la Cina, che a tutt’oggi pare l’unica grande nazione ad avere se non debellato almeno sterilizzato la pandemia, aumenterà la domanda rispetto al 2019 in maniera tale da compensare il calo di richieste nel contesto di alcuni Paesi europei.
Il superciclo del greggio è in larga parte incentivato dall’ondata inflativa globale. Lo testimonia il fatto che, smentendo qualsiasi precedente passato, le scelte del cartello Opec e della Russia (Opec+) di non tagliare la produzione ma di spingere sull’acceleratore non stiano frenando il prezzo, tutt’altro. I prezzi del greggio sono balzati di oltre il 50% rispetto al livello di apertura del 2021. E l’Opec dovrebbe in futuro ancora una volta supportare il mercato, ma stavolta con un aumento della produzione. “È surreale che i prezzi salgano nelle aspettative di un aumento della produzione OPEC, anziché di un taglio”,ha afferma John Kilduff, socio fondatore del fondo energetico Again Capital basato a New York. “Ma è così che la pandemia ha cambiato i fondamentali di questo mercato”. Le vecchie dinamiche del petrolio oggi contraddistinguono il gas naturale, così facilmente sfruttabile da fornitori capaci di governare le dinamiche di più mercati di sbocco e di essere price-maker.
I legami col mercato del gas
Inoltre, i rischi geopolitici dal Golfo all’Ucraina, contribuiscono all’impennata dei prezzi. L’attacco alle raffinerie saudite di fine 2019 insegna che basta un colpo ben calibrato in un centro nevralgico del mercato petrolifero per scatenare un’ondata di panico sull’intero mercato. L’interruzione dell’oleodotto che trasporta più di 450.000 barili al giorno da Kirkuk, città del nord dell’Iraq, il secondo produttore dell’Opec, al porto mediterraneo di Ceyhan in Turchia, ha recentemente fatto saltare una dinamica di questo tipo, a cui si aggiungono fattispecie legate a interruzioni temporanee di una o più arterie del petrolio. Libia, Nigeria, Angola, Ecuador e, più recentemente, Canada hanno sperimentato problemi del genere nei loro pozzi, e non va dimenticato che da anni è in caduta libera la produzione dell’ex campione latinoamericano, il Venezuela.
Preoccupante, per la stabilità del contesto energetico internazionale, è il legame duale che si sta verificando tra prezzi del gas naturale e prezzi petroliferi. I consumi di oro blu ritornano ai livelli pre pandemia, la domanda fatica a esser soddisfatta dall’offerta, i prezzi si impennano, utenti industriali e dei trasporti si muovono verso una ripresa dell’uso del greggio, che a sua volta conosce una spinta al rialzo. Quello che sta succedendo con il gas ci mostra che le persone, ad un certo punto, evitano di utilizzare fonti di energia eccessivamente costose. La domanda, ora, è a che punto questo influirà sul mercato petrolifero, entrato nella fase di backwardation, in cui anche a livello finanziario si punta sui titoli a incentivare una tendenza rialzista.
Usa e Canada corrono ai ripari
Negli Usa questo ha portato Joe Biden a interessarsi direttamente della questione: la Casa Bianca, probabilmente, rilascerà più petrolio del previsto dalla riserva strategica, in quanto l’intervento è mirato a raffreddare il mercato, con quest’ultimo che, tuttavia, chiede un intervento più deciso. E per l’amministrazione dei Democratici la corsa del greggio potrebbe creare problemi all’agenda politica, come nota Rsi News, rimettendo in campo gli attori dello shale oil avversati dalla base ambientalista dei progressisti Usa: “Durante la pandemia, il crollo dei prezzi del greggio aveva spinto le compagnie di trivellazione del petrolio di scisto (prodotto da frammenti di rocce bituminose) all’insolvenza, poiché il costo di produzione è molto più alto del petrolio leggero estratto in Arabia Saudita, per esempio”.
Ancor più problematica la posizione del Canada, dove l’ultraprogressista Justin Trudeau, primo ministro di Ottawa, tenta di tenere il piede in due scarpe promuovendo la transizione energetica ma accettando che a finanziarla sia la rinnovata attività per la gestione delle sabbie bituminose dell’Alberta, in cui come ricorda il Wall Street Journal un esercito di locuste di piccole e medie compagnie sta sostituendo le grandi aziende uscite dal business a lungo attaccato perché estremamente inquinante, dati i grandi quantitativi di acqua sprecata e prodotti chimici usati per l’estrazione nei tar pits. Sia Canada che Usa, realisticamente, promuovono agende politiche di autosufficienza interna e non possono negare di voler continuare a perseguire quella strategia di energy dominance cara a Trump. Ottawa, nota Formiche, ” sta spendendo oltre 12 miliardi di dollari per espandere un altro oleodotto, il Trans Mountain, che trasporta il greggio dalle sabbie bituminose alla costa occidentale del Paese; da lì il prodotto è ancora più vicino a mercati in crescita come quelli asiatici”. Pochi mesi, al contempo, sono passati da quando Biden ha dato via libera a un piano di trivellazioni in Alaska che ha mandato su tutte le furie la sinistra democratica.
Insomma, nel quadro della crisi energetica internazionale le fonti tradizionali sembrano non passare mai di moda, anzi: ora più che mai sul petrolio si scaricano inquietudini, tensioni e problematiche in una fase di ripresa internazionale che si fa sempre più complessa. E nei mesi a venire dalle problematiche contingenti alle sfide a venire, transizione in testa, tutto sarà ancora influenzato dall’andamento del petrolio. Re che non vuole lasciare la corona a altre fonti in tempi brevi.