Accelerare la transizione ecologica a costo di compiere scelte antieconomiche o assecondare i trend in atto e le necessità geopolitiche sul fronte energetico? Rinnovabili o fonti fossili? Pragmatismo o utopia? L’Unione europea è al bivio sulla futura agenda energetica e dovrà presto scegliere se portare avanti la retorica, invero molto fumosa, sul “Green New Deal” o proseguire su una strategia concreta che, sul fronte delle scelte a livello continentale, ha dimostrato di essere più bilanciata.

L’agenda energetica europea prevede un taglio del 36% delle emissioni di combustibili fossili dal 2020 al 2030 e un declino netto fino al 2050, per il quale il sogno è il raggiungimento della carbon neutrality e il completamento della transizione energetica. Ma di fatto l’Europa resta un continente ad alto tasso di industrializzazione, urbanizzato e con una densità abitativa elevata cui fa corrispondenza una cronica carenza di fonti energetiche che la rende un’importatrice netta, e non ne diminuisce la rilevante esposizione sul fronte delle importazioni di combustibili fossili cui contribuiscono anche le strategie di molte majors attive come leader globali nel settore.

La corsa europea al gas

L’European Gas Tracker Report 2021 pubblicato dal Global Energy Monitor, in particolare, segnala che attualmente l’Unione europea ha tra i suoi vari Paesi membri attivi complessivamente 87 miliardi di euro di progetti finalizzati alla realizzazione di impianti volti a rafforzare la capacità di importazione di gas naturale dai mercati esteri. La Romania, con oltre 13 miliardi di euro di progetti attivi, e l’Italia, con 10 miliardi di euro, sono ai primi posti di questa speciale classifica, a testimonianza del fatto che la partita del gas è particolarmente attiva a cavallo tra Mar Mediterraneo, Mar Nero e Balcani ove un altro Paese Ue, la Grecia, mira a diventare il nuovo hub regionale dell’oro blu. E bisogna sottolineare che in questa partita l’Ue è attivamente presente, mirando a ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e a integrare nello spazio economico comunitario attori come Serbia e Macedonia, interessati dal dinamismo energetico di Atene e di altri Paesi quali la Bulgaria.

E come dimenticare un altro attore, la Polonia, che punta sul gas naturale liquefatto statunitense per eminenti ragioni geopolitiche di bilanciamento dell’Orso russo? Varsavia è terza nella classifica degli investitori, con 9,7 miliardi di euro di investimenti previsti in interconnessioni e terminal Gnl.

La somma di questi divergenti obiettivi nazionali, delle congiunture geopolitiche e del diverso indirizzo dei vari Paesi crea una situazione che va in controtendenza con le aspettative dichiarate da Bruxelles in ambito energetico e vedrà l’aggiunta di 222 miliardi di metri cubi annui di capacità di importazione da parte dei Paesi del Vecchio Continente (+35%). Questo, segnala Euractiv, ha scatenato le polemiche nel mondo degli attivisti ecologisti e delle organizzazioni di lobbying contrarie ai combustibili fossili, che segnalano l’ambivalenza comunitaria sul tema: “la domanda di gas naturale in Europa deve declinare già da adesso, altrimenti rischiamo di sprecare miliardi di euro in asset energetici tradizionali”, ha dichiarato Laurence Tubiana, Ceo della European Climate Foundation, critica delle asimmetrie tra le dichiarazioni ufficiali dell’Ue e le sue azioni concrete. Questa volta però, l’incoerenza tra le volontà dell’Ue di promuovere il Green New Deal e le azioni concrete della Commissione, che non disincentiva i Paesi membri sull’energia tradizionale, potrebbe aprire a una maggiore ragionevolezza.

La strada del mix energetico

L’ambiente ha bisogno di scelte ragionevoli. E nella programmazione dei piani di transizione ecologica non si può non pensare a una strategia di lungo periodo. In cui gli investimenti sul gas naturale possono essere visti non solo come l’ultima fase dell’era delle energie fossili ma anche come la prima, fondamentale, mattonella per la transizione. Il gas naturale può aiutare notevolmente ad avviare il phase-out di risorse come il carbone e a ridurre l’impatto ecologico del consumo di petrolio; inoltre, le infrastrutture per il trasporto e lo stoccaggio del gas possono contribuire ad avviare lo sviluppo e la commercializzazione della nuova frontiera, l’idrogeno. E garantire ad aziende e Stati le risorse finanziarie e il tempo atti a programmare sul medio-lungo periodo un investimento lungimirante in energie rinnovabili.

In tutti i nuovi settori, dall’energia da moto ondoso all’eolico, passando per le nuove frontiere del solare, l’Unione e i suoi Paesi membri devono saper coniugare visione strategica sulla futura composizione del mix energetico, impatto delle nuove tecnologie e conseguenti strategie di politica industriale che consentano di valutare a tutto campo le prospettive del Vecchio Continente nella partecipazione non solo alla nuova corsa energetica globale ma anche alle catene del valore ad essa associate. Puntando a un posizionamento nelle sue fasce più elevate.

Questo riposizionamento nella catena del valore globale sarà tanto più rapida – e sostenibile – quanto più l’Europa saprà servirsi delle informazioni a sua disposizione, coordinando strategie e prassi orientate alla riduzione degli sprechi e all’utilizzo di risorse a basso impatto. Tecnologie che per alimentare il volano del sistema migliorino programmaticamente il monitoraggio sui metodi della produzione e della distribuzione dell’energia e delle altre risorse ambientali. La sfida del progresso non potrà che passare dalla capacità dell’Europa, intesa come Ue, di mantenere una posizione di primo piano nella cultura e nelle maestranze di estrema specializzazione.

L’efficienza nei consumi sul fronte del mix energetico può essere uno dei driver dell’attuale rivoluzione industriale, della trasformazione economica e quindi ecologica, ma politiche del genere non si possono improvvisare e, per necessità, realpolitik o scelta consapevole i Paesi del Vecchio Continente puntano sulla strategia del gradualismo. Citando il generale de Gaulle, la transizione ecologica fatta per slogan è un vaste programme. La crescita concreta delle prospettive della transizione passa inevitabilmente anche da risorse come il gas naturale. “Male minore” tra i combustibili fossili e risorsa abilitante per il futuro.

La scelta della Germania di puntare sul gasdotto Nord Stream 2, ad esempio, va di pari passo con la parallela spinta sull’idrogeno; lo stimolo della Francia alle attività della sua Total non esclude la proposizione dell’ambiziosa agenda ecologica di “France Relance“. In Italia questa visione omnicomprensiva ha preso piede con l’insediamento del governo Draghi, al cui interno il ministero della Transizione Ecologica guidato dal fisico Roberto Cingolani sembra aver abbracciato la strada del gradualismo.

Gli alti standard europei

Gradualismo che, se visto su scala globale, rappresenta tuttavia un’assoluta eccellenza. Con buona pace del catastrofismo green e dei negazionisti del cambiamento climatico, opposti estremismi che inquinano un dibattito fondamentale, da tempo i Paesi europei hanno preso seriamente la battaglia climatica. Molto spesso promuovendo politiche pragmatiche senza sbandierarle come svolte epocali. Eurostat nel 2019 in base alle indagini sviluppate dal Global Carbon Project, ha condotto un piano di politiche ambientali che nel lungo periodo, a partire dall’inizio del XXI secolo, si è manifestato vincente. Presentando un calo del -16% nelle emissioni di biossido di carbonio, circa 3,5 miliardi di tonnellate, derivanti da combustibili fossili, scese del 2,5% nel 2018 rispetto all’anno precedente. Le rilevazioni Eurostat vedono in testa Italia e Portogallo con un calo rispettivamente del 9,5% e del 9,0%. Poi vi sono: Bulgaria (-8,1%), Irlanda (-6,8%),  Olanda (-4,6%), Francia (-3,5%). Il pragmatismo, spesso, paga: e molto spesso anche scegliere le fonti fossili meno impattanti può giocare un ruolo strategico.

La scelta dell’Unione Europea di applicare la Carbon Border Tax per colpire indirettamente quelle economie molto più lasche nell’impegno alla sostenibilità e dedite al dumping ambientale è un esempio di misura che segnala una volontà comune decisa. E pone in essere manovre che evitano di scaricare sui Paesi membri le conseguenze della programmazione della transizione. Che, gradualmente, potrà prendere piede solo se non sarà tenuta slegata dal “qui e ora”. Cioé dalle necessità dei sistemi produttivi, dalla maturità delle tecnologie, dalle dinamiche geopolitiche. I veri driver di ogni cambiamento economico e sociale. Vale anche, e forse soprattutto, per l’energia: la transizione non si improvvisa, ma va governata e programmata. E in un certo senso scopriamo che sul piano concreto l’Europa, su questo fronte, è decisamente più matura della sua retorica semplicistica.