Strana Terza guerra mondiale, quella paventata come non improbabile da leader e analisti di tutto il mondo, se i due potenziali contendenti principali continuano a commerciare tra di loro la materia prima più strategica per la guerra nucleare, l’uranio. Strane sanzioni, quelle statunitensi, se colpiscono imponendo l’embargo alla Russia laddove Washington ha raggiunto indipendenza e autosufficienza e dimenticano, lasciandoli ancora più scoperti, quelli ove in cui è più esposta. Ma anche strana reazione quella autarchica di Mosca, se non può fare a meno del minimo dollaro o euro di esportazione di materie prime.

La continuità delle forniture di uranio dalla Russia agli Stati Uniti è una delle questioni meno note dell’attuale rivalità geostrategica tra Mosca e l’Occidente degenerata in vera e propria guerra per procura a Vladimir Putin con il massiccio riarmo dell’Ucraina invasa. Washington ha sanzionato gas, petrolio, carbone e altre materie prime di provenienza russa, ma non l’uranio decisivo per la sua industria nucleare, civile e militare.

Nel 2020, secondo gli ultimi dati a disposizione, i produttori americani di energia nucleare hanno acquistato 22.180 tonnellate di uranio. Come riporta StartMag, “secondo la US Energy Information Administration, l’Agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell’energia statunitense, il Paese importa uranio per il 22% sia dal Canada che dal Kazakistan e per il 16% dalla Russia, seguita poi da Australia (11%), Uzbekistan (8%) e Namibia (5%). Il restante 14% proviene, invece, dagli stessi Usa e da altri cinque Paesi”. La Russia ha dunque una quota nelle forniture di uranio a stelle e strisce un peso maggiore della produzione interna e “non è meno rilevante la presenza tra i Paesi importatori di Kazakistan e Uzbekistan, che sono stretti alleati del Cremlino, e messi insieme forniscono agli Stati Uniti il 46% dell’uranio di cui ha bisogno” per far funzionare le sue centrali. Decisive sia per la fornitura di un quinto dell’energia elettrica al sistema-Paese che per il programma militare nucleare.

Secondo il senatore repubblicano John Barrasso, gli Usa avrebbero speso quasi 1 miliardo di dollari nel 2021 per comprare uranio russo. Una cifra che potrebbe raggiungere, sempre secondo Barrasso, 1 miliardo e 200 milioni quest’anno e che appare dunque irrisoria, sulla carta rispetto, al conto versato quotidianamente dai Paesi europei per comprare gas e petrolio russo, che equivale all’ammontare annuo della spesa Usa, ma non per questo meno strategica. Barasso a marzo ha lanciato una proposta di legge per mettere al bando le importazioni dalla Russia proponendo, al contrario, di rilanciare la produzione nel suo Stato d’elezione, il Wyoming. Prospettiva, questa, che ha messo in allarme gli esponenti delle comunità indigene locali, già in passato minacciate dall’estrattivismo, e che si allarga al resto del sistema di Paesi alleati con Washington.



La Slovacchia, per fare un esempio, come riporta Euractiv genera quasi metà della sua elettricità attraverso le sue due centrali nucleari da sei reattori complessivi gestiti, ricorda Formiche, “dalla società TVEL, una controllata dell’azienda statale russa Rosatom”. Anche l’Ungheria ha accordi con Rosatom per costruzioni di centrali nucleari e dal Medio Oriente all’Africa sono diversi gli Stati, dall’Arabia Saudita all’Egitto, che si affidano alla tecnologia atomica russa.

Il peso specifico di quel miliardo di importazioni americane è paragonabile a quello del conto quotidiano dell’Europa. Dato che mostra la rilevanza strategica e la lungimiranza di Mosca nel dominare questo mercato è il fatto che la Russia pesi non solo per la sua presenza nel business dell’estrazione, quanto piuttosto per il valore aggiunto che sa determinare nell’arricchimento a basso costo del materiale grezzo.

Detentrice del 6% delle riserve globali, Mosca è però la nazione dotata della più grande capacità di arricchimento, con circa il 43% della capacità operativa globale in suo possesso secondo la World Nuclear Association: un valore maggiore di quello di Francia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito messi insieme. Una volta di più la globalizzazione e la ricerca del costo minimo nei processi industriali hanno colpito gli Usa su un materiale strategico, e ora se le sanzioni dovessero amplificarsi l’arma dello stop alle esportazioni di uranio sarebbe una contromossa lasciata facilmente in mano alla Russia. E colpirebbe sia la capacità di generazione elettrica che il sistema nucleare militare a stelle e strisce, date le conseguenze sulla produzione di plutonio che ne deriverebbero. Ma proprio il fatto che le sanzioni sull’uranio da esportare non siano ancora state imposte dalla Russia segnala che un passo importante verso il caos nelle relazioni bilaterali non è stato ancora compiuto. E questa è una buona notizia: un raro caso di interdipendenza industriale e commerciale capace di frenare un caos geopolitico. Ma fino a quando durerà questo, in una fase di escalation continua, non è dato sapersi.

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