Gli Stati Uniti vanno a Canossa, anzi a Caracas. E rendono implicitamente Nicolas Maduro uno dei vincitori della crisi geopolitica globale aperta dall’invasione russa dell’Ucraina. Il presidente venezuelano, dopo anni di braccio di ferro, delegittimazione, tentativi falliti di colpo di Stato e spinte politiche degli Usa a nominare un presidente alternativo, Juan Guaido, la cui credibilità istituzionale non ha mai avuto modo di consolidarsi è stato di fatto legittimato da Washington: lo rivela il New York Times, che ha parlato di una visita di funzionari dell’amministrazione Biden in Venezuela avvenuta nei primi giorni di marzo mentre in Europa si consolidava l’offensiva russa  in Ucraina.

L’iniziativa, riferisce l’autorevole testata della Grande Mela, si inserisce nel quadro di una complessa strategia della Casa Bianca per aumentare l’isolamento internazionale di Mosca, partendo proprio dall’inner circle dei suoi più stretti alleati: solo poche settimane fa Maduro apriva alla possibilità di ospitare una base militare russa sul suo territorio, nei giorni dell’invasione era etichettato da Washington come Stato sponsor del terrorismo, improvvisamente il nome di Maduro è salito in testa alla lista dei leader attenzionati da Washington.

Fumata nera, a quanto riporta il Times, per il primo incontro, ma il dato politico è fondamentale. Ai tempi dell’amministrazione Trump gli Usa avevano rotto ogni rapporto con Maduro, avevano messo sotto indagine per sostegno al narcotraffico e corruzione ogni membro del suo regime, rafforzato le sanzioni che, assieme alla scriteriata gestione della rendita petrolifera da parte dell’erede di Hugo Chavez, hanno contribuito a strangolare l’economia venezuelana e implicitamente indicato in Guaidò il legittimo presidente. L’ambasciata Usa è chiusa dal 2019, Washington ha azzerato nel giugno dello stesso anno l’importazione di greggio venezuelano e negli stessi mesi ha tentato, per mezzo di John Bolton e dei leader dell‘opposizione, un goffo tentativo di golpe che ha implicitamente rafforzato la presa di Maduro sull’apparato militare.


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Ora però il dato politico è notevolmente cambiato: Washington sta ponendo sotto sanzioni la Russia ma non può procedere a tamburo battente sull’opzione nucleare dell’azzeramento delle forniture energetiche, che vede Mosca al terzo posto tra i fornitori di greggio di Washington con 600mila barili al giorno, temendo uno shock economico globale. Da qui è nata l’idea di provare a tastare il terreno con Maduro: non dimentichiamo che nel 2001 il governo di Hugo Chavez forniva a Washington 1,833 milioni di barili di petrolio al giorno (55 milioni al mese), e nonostante le sanzioni e la corsa americana all’indipendenza energetica nel marzo 2013, all’ascesa di Maduro alla presidenza, la quota era ancora vicina ai 25 milioni di barili mensili. Da lì in avanti è iniziata una graduale discesa che ha portato all’azzeramento, mentre Caracas sceglieva la Russia come alleato principale. Di fronte allo shock energetico globale, il Venezuela sta mandando velati segnali per provare a rientrare nell’ordine economico occidentale mettendo sulla bilancia le sue riserve petrolifere, le più ampie al mondo.

Il Wall Street Journal ha scritto che la crisi energetica “sta spingendo i decisori del governo Usa a considerare la possibilità di allentare le sanzioni sul Venezuela”. Maduro, nei giorni dell’attacco russo, ha mandato segnali contraddittori. In primo luogo ha attaccato, come da copione, le mosse occidentali che avrebbero spinto Mosca a una decisione inevitabile. In seguito, però, nota Agenzia Nova, “in sede di Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il Venezuela non si è opposto all’apertura di una commissione internazionale per indagare su possibili violazioni compiute nell’attacco in Ucraina. Il suo è stato uno dei 13 voti di astensione espressi dal Consiglio, assieme – tra gli altri – a quelli di Cuba, Cina, India e Bolivia”. Caracas, assieme agli alleati latinoamericani in questione e al Nicaragua di Daniel Ortega, si è astenuta anche nel voto all’Assemblea Generale che ha condannato la mossa russa.

Queste mosse sono state colte dagli Stati Uniti che hanno iniziato a sondare il terreno. Avviando sul campo di fatto il loro processo di riconoscimento ufficioso di Maduro, tre anni dopo la rottura che pareva definitiva. Lo schema potrebbe essere quello di un graduale reintegro del Venezuela nei mercati a guida occidentale, da promuovere sottotraccia, senza per questo spingere Maduro alla rottura esplicita con Putin, che è impensabile sotto il profilo politico. La grande notizia, in questa mossa, è senz’altro quella del superamento del tentativo di regime change, forse in forma definitiva, da parte di Washington e della legittimazione di Maduro: una mossa che, a prescindere dall’esito delle trattative, appiana molte tensioni in America Latina, in una fase in cui invece il Vecchio Continente è in fiamme. Per quanto riguarda il ritorno del greggio di Caracas sui mercati globali, presto potrebbero essere le dinamiche di prezzo e gli scenair emergenziali a renderlo inevitabile. Rendendo dunque il Venezuela il Paese maggiormente favorito, nel suo contesto regionale, dalle improvvide mosse dell’alleato Putin.

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