Alla recente conferenza di Glasgow sul cambiamento climatico c’erano americani ovunque. I diplomatici hanno fatto grandi promesse sulla progressiva eliminazione di sussidi ai combustibili fossili, aumentando i tagli del governo all’inquinamento che provoca il riscaldamento globale. Sul palcoscenico di Glasgow sono saliti anche CEO con nuovi proclami su come aiuterebbero a reindirizzare investimenti privati da trilioni di dollari verso iniziative green. Gli Stati Uniti hanno avuto inoltre un ruolo centrale nel grande annuncio di un taglio del 30% alle emissioni di metano, un gas serra particolarmente forte, e sono ritornati addirittura a far parte di una coalizione di Paesi che promette di riuscire nella nobile impresa di fermare il cambiamento climatico a solo 1,5 gradi sopra i livelli preindustriali.
L’America è tornata, o almeno così pare. Ma dietro alle apparenze, negli Stati Uniti non è cambiato molto. Nella maggior parte del Paese ci sono poche tracce di una “transizione energetica” di massa, come viene spesso chiamato il passaggio ad un’economia a zero emissioni. Questo cambiamento è già in corso in California e a New York – e anche a ritmo sostenuto – ma non in Wyoming, nel Kansas o nella maggior parte del centro del Paese. Si stanno diffondendo l’energia eolica e quella solare, ma così anche il gas naturale, che è sì il modo più pulito di bruciare combustibile fossile ma produce comunque emissioni di anidride carbonica e metano. Tali progressi sono il motivo per cui il carbone, un concorrente meno degno di nota, è crollato della metà nel corso dell’ultimo ventennio. Le forze di mercato lo stanno ora sostenendo nuovamente – anche se solo in parte – poiché quest’anno il prezzo del gas è raddoppiato. Per quanto riguarda i trasporti, l’amministrazione Biden parla di veicoli elettrici, ma non sono quelli che gli americani stanno acquistando. Tutte le auto più vendute in America utilizzano motori a combustione interna; i primi tre modelli sono truck giganti (soltanto un veicolo elettrico rientra nella top 25 – il modello 3 di Tesla, che si posiziona al 19º posto).
Non si tratta dunque di una transizione netta, bensì di un normale e più docile processo di cambiamento guidato dal mercato. Tali cambiamenti, perlopiù non collegati alle regolamentazioni sul cambiamento climatico, hanno aiutato sì gli Stati Uniti a ridurre un po’ le proprie le emissioni – soprattutto grazie al collasso del carbone – ma sono ancora lontani dai tagli che servono al Paese per svolgere la propria parte nella lotta al cambiamento climatico. Per certi aspetti, la lentezza di questo cambiamento è dovuta semplicemente all’inerzia. Quando un grande sistema industriale passa a nuove tecnologie, raramente lo fa in fretta. Quando il mondo passò da sistemi energetici basati sul carbone – come ad esempio le ferrovie – ad automobili ed aerei alimentati a petrolio, ci impiegò più di mezzo secolo. Tale inerzia, che è evidente pressoché ovunque nel sistema energetico globale, è la ragione per cui da tempo ritengo che fermare il cambiamento climatico, persino a due gradi, sarebbe quasi impossibile. Nuovi studi pubblicati prima di Glasgow hanno confermato che nemmeno sforzandosi con delle nuove policy il mondo raggiungerebbe l’obiettivo di fermare il riscaldamento ad 1,5 gradi, andando anche ben oltre i 2.
Il sistema climatico planetario e l’inerzia industriale sono forze ben più potenti rispetto al consenso sugli accordi raggiunti a Glasgow. Ma la sfida maggiore per l’America è di natura politica. Il Paese è drasticamente diviso su quasi ogni questione, dai vaccini alle infrastrutture. Una politica spaccata ha un enorme impatto sulle regolamentazioni energetiche, poiché è molto difficile fare in modo che i cittadini – nonché i membri eletti del Congresso – riescano a trovare un punto d’accordo. Quando poi sono d’accordo, lo sono su come spendere più soldi pubblici – non su come sanzionare chi inquina di più. Ecco perché la nuova legislazione degli Stati Uniti è piena di sussidi alle energie rinnovabili, ai veicoli elettrici e ad altri validi investimenti, ma tace su come regolamentare le tecnologie più obsolete e che inquinano di più. Senza una regolamentazione in merito o altre pesanti sanzioni come potrebbe essere una carbon tax – tutte politicamente fuori discussione – gli Stati Uniti non riusciranno a tagliare di molto le proprie emissioni.
L’attuale crisi energetica sta creando delle sfide ancora più ostili al cambiamento. I prezzi dell’elettricità sono raddoppiati, principalmente perché anche il prezzo del gas è raddoppiato. Anche il costo della benzina è in aumento. Uno dei migliori studi mai realizzati sull’opinione pubblica statunitense in merito alle politiche energetiche ha rivelato che gli americani vogliono sì un futuro più verde, ma soltanto se quel futuro non sembri costare troppo. E adottare delle policy per un futuro più green quando i prezzi dell’energia sono alle stelle sarebbe un suicidio politico. In un Paese politicamente diviso, un governo federale non farà granché a livello nazionale. Ciò significa che sono gli stessi Stati federali a dover prendere in mano la situazione. E la buona notizia è che una policy guidata da uno Stato federale — idealmente, ciascuno con un proprio piano — non costa molto di più rispetto ad un’ipotetica policy a livello nazionale, poiché alcuni servizi energetici come l’elettricità vengono scambiati tra gli Stati stessi. L’America non è poi divisa su ogni questione. Una su cui la maggior parte dell’opinione pubblica statunitense si trova d’accordo è la linea dura nei confronti della Cina. Una pessima notizia per le politiche climatiche, in quanto i due Paesi che producono più emissioni al mondo devono trovare il modo di collaborare, se vogliono dare al pianeta una chance di sopravvivenza. Ci sono alcune buone idee per come riuscirci, e sia Cina che Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione incoraggiante a Glasgow; ma il vento dell’opposizione politica soffia forte in entrambi i Paesi. Al resto del mondo gli Stati Uniti appaiono dunque decisamente ipocriti, entrando a far parte di una coalizione che dichiara di riuscire a fermare il riscaldamento globale ad 1,5 gradi e promettendo di supportare Paesi ad adattarsi al duro impatto del riscaldamento, anche quando non c’è il consenso politico per spendere le somme necessarie. Ipocrisia è una parola oscura per quella che è la vera arte della politica, ovvero fare quello che è possibile, nella speranza di cambiare il futuro. È quello che sta succedendo negli Stati Uniti così come in Europa. Mentre energia solare ed eolica guadagnano fette di mercato diventano anche più forti politicamente, ad esempio; lo stesso che accade quando sempre più gente comprende il ruolo dell’energia nucleare nel taglio delle emissioni. Tali cambiamenti stanno trasformando lo scenario politico; in un Paese spaccato come gli Stati Uniti questo processo è più lento, con tante svolte quanti sono i passaggi di potere a Washington. Ciò si rivela frustrante per il resto del mondo che dipende così fortemente dalla leadership americana, ma denota che per comprendere le prossime mosse degli Stati Uniti non occorre concentrarsi esclusivamente sulle dichiarazioni politiche che arrivano da Washington. Occorre, piuttosto, volgere lo sguardo alle industrie che stanno trasformando il mondo degli investimenti verso un futuro più ecosostenibile, ed tenere d’occhio gli Stati per capire meglio che cosa possa durare nel tempo.