Il grande gioco delle materie prime ha un nuovo protagonista, l’alluminio. Metallo strategico per diverse industrie, ad esempio quelle dell’aeronautica, delle costruzioni, dell’auto e dell’energia e che ha in Russia e Cina i primi produttori mondiali e che gli Stati Uniti potrebbero sanzionare sul fronte delle importazioni da Mosca.

Nella giornata del 12 ottobre molte agenzie hanno riportato che gli Stati Uniti stanno considerando di bloccare le importazioni russe di alluminio citando fonti anonime vicine all’amministrazione del presidente Joe Biden. La notizia ha causato un’impennata nel prezzo dei futures dell’alluminio al London Metal Exchange, il principale mercato di riferimento per tale metallo, come l’analista esperto in materie prime Gianclaudio Torlizzi ha opportunamente sottolineato.

Come riportato dal canale di informazioni strategiche ucraino bne IntelliNews, “sebbene la metallurgia russa stia cedendo posizioni sotto i colpi delle difficoltà economiche del tempo di guerra“, acuite dalle sanzioni, “alcuni metalli russi sono profondamente radicati nei mercati globali e sono difficili da sanzionare“. E del resto in precedenza, a luglio, “gli Stati Uniti hanno esentato metalli strategici come alluminio grezzo, palladio, rodio, nichel e titanio da un aumento delle tariffe di importazione“. Su Inside Over avevamo sottolineato come questo range di materiali esentati dagli Usa arrivasse fino all’uranio, mostrando la difficoltà dell’Occidente di rompere la dipendenza da catene del valore che puntavano dritte verso il Cremlino.

Secondo i dati commerciali ufficiali rilasciati a settembre da Mosca, le importazioni di alluminio e nichel russi nell’Ue e negli Stati Uniti nel periodo marzo-giugno 2022 sono aumentate del 70% a 2 miliardi di dollari. Gli analisti intervistati da Reuters hanno sottolineato che gli Stati Uniti e l’Europa non hanno voluto ripetere le ricadute delle sanzioni del 2018 sull’alluminio russo e gli operatori hanno reagito all’incertezza accelerando gli acquisti per fare scorte. Favorendo, dunque, il Cremlino.

All’inizio di ottobre i prezzi dell’alluminio hanno iniziato a scontare le prospettive di una fine delle forniture russe all’Occidente. I futures sull’alluminio sono stati scambiati alla fine della scorsa settimana intorno ai 2.350 dollari per tonnellata, in calo di quasi il 50% rispetto al picco record raggiunto a marzo, a 4.100 dollari la tonnellata, ma in crescita del 10% rispetto a fine settembre. Alcoa, maggiore tra i produttori di alluminio degli Stati Uniti, ha recentemente comunicato agli investitori che si deve attendere una riduzione delle marginalità e dei profitti dovuta agli elevati costi dell’energia e delle materie prime. E a impattare sui prezzi è la notizia che anche London Metal Exchange ha annunciato che stava considerando l’ipotesi di vietare l’ingresso sul mercato di nuovi metalli russi.

A marzo, una stretta sul mercato del nichel in sede Lme – in parte dovuta ai timori dei commercianti che la produzione russa di nichel si sarebbe ridotta dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina – ha portato alla chiusura temporanea del mercato del nichel e allo scioglimento di migliaia di accordi finanziari.

Oggi Washington, supportata da Londra, studia le sanzioni di ultima concezione. Ma Bloomberg  ha riportato a tal proposito una nota del centro studi Chaos Tenary secondo cui “lo scenario peggiore” per l’Occidente “è che l’Europa e gli Stati Uniti blocchino l’alluminio russo. L’alluminio russo bloccato si riverserà molto probabilmente in Cina, India e altrove, seguito dalle esportazioni cinesi di prodotti di alluminio in Europa e negli Stati Uniti per colmare il divario”.

Pechino produce oltre il 55% dell’alluminio su scala globale e potrebbe “invadere” i mercati occidentali qualora la Russia fosse fermata. Inoltre, al contempo, sta rilasciando gradualmente scorte pagate molto meno in passato e mantenute in ghiacciaia per casi come la frenata delle costruzioni dovuta al Covid-19. L’immobiliare cinese gestisce il 10% della produzione mondiale di alluminio, oggi riorientabile attraverso la sinergia con la Russia, la cui materia grezza può rientrare nei semilavorati cinesi, verso un export diretto all’Occidente da cui Washington e l’Europa possono ottenere solo una nuova dipendenza dal loro viale strategico numero uno. Facendo rientrare dalla finestra la produzione di Mosca sanzionata. Un autogol che mostra quanto su questi mercati Washington sia, di fatto, sotto scacco. Vittima delle logiche di mercato che la stessa globalizzazione made in Usa ha contribuito a sdoganare.