Viktor Orbán tiene ancora sotto scacco l’Unione europea sulle sanzioni contro la Russia. Il Primo Ministro ungherese ha inviato una lettera al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in cui scrive che il Paese magiaro non potrà appoggiare l’embargo petrolifero totale sul greggio russo senza che sia Bruxelles a pagare il conto. E che, a questo proposito, l’Ue debba fornire rassicurazioni più chiare in merito. Nell’attesa, Orbán ha chiesto che la questione non venga discussa al prossimo Consiglio europeo straordinario, in programma lunedì e martedì.
Nella missiva, pubblicata dal Financial Times, si legge: “Discutere il pacchetto di sanzioni a livello di leader in assenza di un consenso evidenzierebbe solo le nostre divisioni interne senza offrire una possibilità realistica di risolvere le differenze”.
Una querelle non nuova, anzi. L’Ungheria è da sempre piuttosto fredda circa l’inasprimento delle sanzioni antirusse per via dell’impatto economico gravoso che rischiano di avere sulla propria economia, ma anche per una questione politica. Benché da Budapest cerchino di sottolineare questo punto, la leadership magiara ha intrattenuto buoni rapporti diplomatici con la Russia ed ha stretto parecchio i legami commerciali negli scorsi anni. Con la conferma a larga maggioranza di Orbán alla guida del Paese, ottenuta ad inizio aprile, il governo ungherese ha posto con ancor più vigore l’accento sulle proprie posizioni, visto che all’elettorato di Fidesz durante la campagna elettorale sono piaciute parecchio. Anche perché, più che “amici di Putin” come piace sostenere alla sinistra per screditare Orbán e i suoi, il sentimento comune degli ungheresi è più che altro riassumibile in “nemici di Zelensky”, laddove i rapporti con i governi ucraini che si sono succeduti negli ultimi 8 anni sono sempre stati conflittuali, per via di un trattamento riservato alle minoranze ungheresi in Transcarpazia che Budapest sostiene sia stato al limite del repressivo.
Il volano che l’Ungheria intende utilizzare per far pressione sull’Europa però è quello economico. Tempo fa, gli ungheresi avevano quantificato in 750 milioni di euro il contributo necessario per l’adeguamento delle infrastrutture delle raffinerie e degli oleodotti, così da poter lavorare prodotti diversi dal greggio russo e diminuire una dipendenza che al momento è del 58% del fabbisogno totale. Ma con la guerra che prosegue e i vari sommovimenti connessi, ora l’Ungheria chiede tra i 15 e i 18 miliardi per imbastire una seria transizione ecologica verso le rinnovabili.
Una richiesta monstre che ha esasperato i diplomatici europei e lasciato intendere a molti che la posizione ungherese sarebbe appositamente elevata per minare un accordo generale sullo stop al petrolio russo in tutta l’Ue, ma pure per “regolare i conti” con Bruxelles, con cui già da tempo l’Ungheria ha un contenzioso aperto. La Commissione europea, infatti, ha avviato ad aprile contro l’Ungheria il cosiddetto meccanismo di condizionalità: una procedura che permette di sospendere i pagamenti diretti a uno membro se ritiene che questo violi lo Stato di diritto e produca impatti negativi sul bilancio comunitario.
Orbán se l’è legata al dito. E al momento per convincerlo non è servito nemmeno il piano da 210 miliardi presentato la scorsa settimana dall’Ue, il REPowerEU, con cui si cercherà di abbandonare i combustibili fossili russi entro il 2027. Sebbene ci fossero stati alcuni segnali incoraggianti, Orbán nella lettera ha spiegato che il piano non ha affrontato le preoccupazioni dell’Ungheria poiché mancherebbero chiari riferimenti di risorse da stanziare agli Stati membri che non hanno uno sbocco sul mare.
In particolare Orbán ha sottolineato che le sanzioni proposte causerebbero “gravi problemi di approvvigionamento” in Ungheria e minerebbero i suoi interessi vitali in materia di sicurezza energetica, provocando uno “shock sui prezzi” per le famiglie e per l’economia del paese. La stessa Ursula Von der Leyen si è impegnata a fondo per trovare un punto di incontro, recandosi a Budapest per un colloquio faccia a faccia con Orbán per risolvere l’impasse. Ma il suo viaggio si è rivelato infruttuoso. Una prevista videoconferenza con i leader regionali per discutere di come aiutare l’Ungheria ad adeguarsi non è mai stata realizzata e anche i colloqui tra governi e diplomatici sono finiti in un limbo.
Ora, a Bruxelles è iniziato il conto alla rovescia per la riunione straordinaria dei leader dell’Ue della prossima settimana, durante il quale Orbán cercherà di presentarsi con una gigantesca leva contrattuale.
Come già accaduto in passato.
Nel 2020, ad esempio, l’Ungheria minacciò di bloccare il pacchetto di bilancio e di ripresa dell’Ue per un accordo che vincolava i pagamenti dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto. Allo stesso modo, nei corridoi dei palazzi del potere di Bruxelles funzionari e diplomatici sospettano che le strategie di Orbán per prendere tempo siano finalizzate a far desistere la Commissione dal tagliare i fondi all’Ungheria.
Il problema è che, stavolta, con la guerra in Ucraina di mezzo, diversi Paesi non sono disposti a cedere neanche un millimetro sulla questione delle sanzioni alla Russia (tra cui alleati di ferro dell’Ungheria come la Polonia e i Paesi baltici che così facendo rischiano di diventare “ex”) e hanno avvertito che le due questioni non devono essere in alcun modo collegate per ragioni morali. Non si fa realpolitik sul conflitto, dunque. La frustrazione in Europa sta crescendo e le ripercussioni del posizionamento di Orbán sono difficili da prevedere.