La Cina sta investendo imponenti risorse per costruire stabili relazioni diplomatiche con l’Africa. Il Continente Nero, agli occhi di Pechino, è un partner strategico fondamentale. Stringere accordi diplomatici con i Paesi africani equivale ad aprirsi nuovi mercati e farsi nuovi amici. E tutto utilizzando la legittima arma del soft power. Ma c’è di più, perché quando un governo africano entra nell’orbita cinese si allontana da quella americana.
L’estensione della Via della Seta in Africa
Con la Belt and Road Initiative Pechino intende collegare il proprio paese con l’Eurasia, eppure all’orizzonte sta prendendo spazio anche una variante di questa iniziativa strategica. Si tratta della “Nuova Via della Seta africana”, così essere ribattezzata in modo non ufficiale. Più nel dettaglio, nelle mosse cinesi in Africa si intravede un embrionale tentativo di creare un’appendice alla Via della Seta Marittima. Nel mastodontico progetto di Xi Jinping, infatti, esiste una Via della Seta Terrestre e una, appunto, marittima. Quest’ultima collega i porti meridionali della Cina, attraverso tappe intermedie nell’Oceano Indiano al porto di Djibuti. Da qui, lungo il Mar Rosso e il Canale di Suez, la Cina approda nel Mediterraneo.
Porti e non solo
Ma nelle intenzioni di Pechino c’è l’idea di affidarsi su molti altri porti africani. Oltre a Gibuti, la Cina ha pianificato ancoraggi in Kenya, (con gli scali di Lamu e Mombasa), Tanzania (Mtwara e Bagamoyo Dar er Salam) e Mozambico (Beira e Maputo). Questo per quanto riguarda l’Africa orientale. Sulla sponda opposta opposta potrebbero presto sorgere (o essere rinnovati) porti in Namibia (Walvis Bay), Gabon (Liberville), Cameroon (Kribi), Ghana (Tema), Sao Tomé, Guinea (Conakry) e Senegal (Ndiago). I quali si andrebbero ad aggiungere a quelli già esistenti in Nigeria (Lomé), Costa d’Avorio (Abijian), Ghana (Aboadze), Mauritania (Nouakchott) e Marocco (Casablanca e Tangeri).
Collegare le due coste
Probabilmente non tutti questi porti entreranno automaticamente a far parte della rotta cinese. Ci sono infatti ancora da trovare gli accordi fra le parti e la Cina, allo stesso tempo, dovrà far bene i suoi conti. Perché i soldi arriveranno dalle casse di Pechino. Gli yuan serviranno sì a edificare gli scali marittimi, ma anche per collegarli da una costa all’altra dell’Africa con apposite ferrovie. Ad esempio a Gibuti è sorta una linea ferroviaria che collega il porto ad Addis Abeba. In Angola c’è la Lobito-Luau mentre in Nigeria è attiva la linea Kano Abuja.
Il Continente Nero cambia pelle
La Cina ha già in mente una bozza di quella che sarà l’Africa del futuro, dotata di porti e nuove infrastrutture. Da Mombasa è in pianificazione una strada ferrata fino a Bujumbura, Uganda, e Juba, Sud Sudan. Dalla Tanzania si potrà arrivare direttamente in Zambia, a Kapiri Mposhi, mentre il Lagos. In Nigeria, la capitale Lagos potrà essere raggiunta dai cittadini di Kano e Calabar. E Dakar, in Senegal, avrà presto un collegamento con Bamako, in Mali. Questo almeno per iniziare, poi il governo cinese potrebbe pensare di unire ulteriormente le capitali delle due coste africane. Guerre e instabilità locali permettendo.
Un progetto ambizioso e pragmatico
I numeri parlano chiaro. Dal 2009 a oggi la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa, e negli ultimi dieci anni ha investito nel Continente Nero 125 miliardi di dollari. Una cifra in continua crescita, di pari passo alle ambizioni di Pechino. In molti hanno attaccato la politica cinese, accusandola di neocolonialismo e sfruttamento. In realtà la Cina si è rivelata pragmatica e paziente nel voler trovare diamanti in mezzo a cocci di bottiglia. E data la situazione economica e politica dell’Africa, paragonare la regione a vetri rotti è anche troppo. Sia chiaro, Pechino non è Babbo Natale e non intende regalare niente a nessuno. Dietro agli investimenti cinesi in Africa si nasconde una convenienza neanche troppo nascosta. Ma il tutto appare equilibrato da un processo win win tra le parti in causa.
Il rischio economico: debito alle stelle?
L’unico problema, serio, cui deve far fronte la Cina è una bega interna. Il Dragone è alle prese con un debito elevatissimo, che secondo alcuni avrebbe toccato il 300% del Pil. Aggravare la situazione spendendo e spandendo oltre confine somme ingenti di denaro potrebbe essere, nel lungo periodo, un azzardo enorme. Per ogni progetto in Africa la Cina vede aumentare la propria esposizione esterna. I soldi, come detto, arrivano da banche cinesi, il prestito in teoria dovrebbe provenire dai governi africani. Ma non c’è sempre la garanzia che questi riescano a ripagare i loro debiti.
Tre mosse per evitare il peggio
La Cina, per fare un esempio, detiene più della metà del debito estero del Kenya e poco meno di quello dello Zambia. E così vale per molti altri Stati africani. Ma cosa succede quando i governi locali si dimostrano inadempienti e non saldano i propri debiti con Pechino? Ci sono tre scenari possibili. Nel primo, e più comune, la Cina ristruttura il debito spalmandolo nel tempo e consentendo ai debitori di trovare i fondi necessari. Il secondo scenario prevede la conversione del debito africano in quote azionarie di aziende locali o in nuovi investimenti in altri settori, come banche e telecomunicazioni. Nel caso più grave – se uno Stato africano dovesse finire in bancarotta – le banche cinesi venderebbero i loro crediti inestinguibili ad altri soggetti interessati ad agire nei mercati africani.