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Allentare le restrizioni sugli aiuti di Stato per favorire una risposta europea più incisiva contro il coronavirus? Bruxelles ci sta pensando. Regole ferree e vincolanti risultano dannose e controproducenti nel momento dell’emergenza, e l’Eurogruppo del 16 marzo potrebbe aprire la strada a una sostanziale riforma della disciplina comunitaria sul tema, da tempo tra le più stringenti al mondo e giustificata con la scelta di premiare la concorrenza nel mercato unico sulle priorità fissate dai governi nazionali nei settori strategici.

“Molte sono le idee sul tavolo”, fa notare La Stampa “dall’ utilizzo della Banca europea degli investimenti (Bei) per fornire garanzie alla liquidità per le Pmi, a sostegni alle imprese sotto forma di esenzioni fiscali. Si tratta di misure nazionali, che però l’ Eurogruppo vorrebbe fossero attuate in modo coordinato, per questo la riunione sarà quasi del tutto dedicata agli effetti dell’ epidemia sull’ economia e alle possibili soluzioni anticicliche”. Dopo lunghi tira e molla, dopo aver negato in un primo momento la gravità del contagio economico e dopo che il resto del mondo si è già mosso, l’Unione Europea potrebbe attuare una reazione corale lasciando spazio agli Stati per fare ciò che dovrebbe esser per loro naturale compito in periodi emergenziali, ovvero muoversi con discrezionalità nell’economia.

Attualmente la disciplina degli aiuti di Stato dell’Unione è articolata e resa ancora più complessa dal consolidato di sentenze della Corte di Giustizia. Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, all’articolo 107/2, li vieta espressamente escludendo solo due fattispecie: la generica necessità di correggere “fallimenti del mercato” o la necessità di “realizzare obiettivi di comune interesse” (servizi di interesse economico generale, coesione sociale e regionale, occupazione, ricerca e sviluppo, sviluppo sostenibile, promozione della diversità culturale e così via). In tal senso, rilassare la normativa o concedere deroghe sulla salute pubblica aprirebbe una breccia non di poco conto e, soprattutto, creerebbe un precedente sul tema della risposta economica alle emergenze.

Il coinvolgimento della Bei, attualmente, prevede che l’istituto possa intervenire a finanziare progetti interni ai Paesi dell’Ue solo quando i suoi investimenti risultano accompagnati da un cofinanziamento statale o dalla prestazione di garanzie statali. Derogare a questa fattispecie consentirebbe una manovra a più ampio raggio, di cui l’Unione ha enorme bisogno.

I dati che provengono dall’economia globale sono infatti sempre più preoccupanti. Le borse europee in due settimane hanno di fatto azzerato i guadagni del 2019 e, in Italia, Piazza Affari ha bruciato 95 miliardi dal 21 febbraio. L’Ocse prevede i segni di un contagio economico mondiale e il prospetto di crescita per il 2020 potrebbe risultare addirittura dimezzato. La corsa ai beni rifugio in borsa e il rafforzamento di titoli come il Treasury statunitense e il Bund tedesco certificano che i mercati si preparano ad entrare in trincea. L’Europa rischia di rimanere schiacciata tra l’incudine e il martello, priva di una leadership politica all’altezza e di figure capace di progettualità a lungo termine come Mario Draghi. Il quale, al netto di errori e problemi nella risposta, seppe, per citare Carl Schmitt, “decidere nello stato d’eccezione” venutosi a creare per il rischio di un collasso sistemico nel 2012. Ammettere che l’Europa dell’austerità e delle regole rigide è inadatta a fronteggiare la buriana mondiale prodotta dal contagio del coronavirus e dalla prima grande crisi della globalizzazione potrebbe essere un primo passo. Ma servirà un coraggio politico che ora difficilmente sembra emergere nel Vecchio Continente.

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