L’Europa rischia di tornare nella bufera della recessione per la quarta volta in meno di quindici anni. Dopo la crisi del 2007-2008, la lunga fase di instabilità seguita alla crisi dei debiti sovrani del 2010-2011, alleviata solo dal lancio del quantitative easing nel 2015, e la recessione pandemica del 2020 il combinato disposto tra scorie del Covid, crisi energetica e guerra in Ucraina porta nuovamente l’Europa in territori inesplorati in questo complesso 2022.

La stagnazione secolare del Vecchio Continente

Si può dire in quest’ottica qui che quella vissuta dall’Europa non è una fase di crisi alternate a momenti di pieno sviluppo, ma bensì il sintomo di un declino sempre più accentuato nel contesto dell’economia globale. Riscoprendo l’economista americano Alvin Hansen potremmo parlare di “stagnazione secolare”, guardando l’ultimo quindicennio come un periodo comune di destabilizzazione dell’area del Vecchio Continente. In cui la risposta ad ogni crisi ha portato con sé il seme di quella successiva.

Nel 2007-2008 il sostegno agli istituti finanziari in crisi aprì la strada all’insostenibilità debitoria, nel 2010-2011 il tentativo di rispondere alla Grande Recessione con rigore e austerità fallì clamorosamente, dopo il 2015 il quantitative easing ha permesso di mettere liquidità nel sistema ma, complice la sua versione ampliata dopo la pandemia, si è trasformato in un salvagente lanciato dalla Banca centrale europea all’Unione senza stimolare la domanda interna e un moderato aumento dell’inflazione. E, infatti, il bazooka di Francoforte si è ritrovato scarico quando l’Europa, importatrice netta di fonti energetiche, si è vista travolta dal superciclo delle materie prime accelerato dalla guerra in Ucraina e dalla stretta monetaria Usa, che hanno prodotto un indebolimento dell’euro, un aumento netto dell’inflazione e perfino la caduta in deficit commerciale di Italia e Germania.

La “crisi delle crisi”

Mai quanto nel 2022 la crisi che rischia di portare nuovamente in recessione l’Europa ha determinanti legate al grande gioco del sistema internazionale.

Parliamo di una “crisi delle crisi” o, per dirla con lo storico dell’economia Adam Tooze, di una “policrisi”. Legata innanzitutto a un dato geopolitico: l’Europa è sempre più oggetto e sempre meno soggetto delle dinamiche internazionali. E in questa fase l’economia europea è strumento esplicito della guerra asimmetrica condotta dall’Occidente a guida Usa contro la Russia di Vladimir Putin. Battaglia fondamentale che di fatto trasforma, una volta per tutte, l’Ue in un satellite americano affossando le volontà di autonomia strategica europea, destrutturando l’asse franco-tedesco attorno a cui si stavano costituendo gli embrioni di una cooperazione per lo sviluppo di frontiera, rendendo Bruxelles e i Paesi membri dell’Ue impegnati a diversificare le proprie fonti energetiche guardando con forza anche al gas naturale liquefatto di oltre atlantico.

Il risultato? Un cortocircuito. L’Europa che (legittimamente) sostiene l’Ucraina e cerca il modo migliore per includere, in prospettiva, Kiev nella sua sfera d’influenza sceglie consapevolmente di cedere al ricatto energetico russo. Finanzia la guerra di Putin con oltre mezzo miliardo di euro al giorno, predica l’impossibilità di sganciarsi in tempi brevi dal gas russo, a Bruxelles e Francoforte torna a far aleggiare la parola più problematica dell’Ue del nuovo millennio, ovvero austerità. Questo crea il più classico dei circoli viziosi: priva della capacità decisionale sul fronte geostrategico e dipendente da fonti esterne, l’Unione Europea si fa travolgere dall’inflazione energetica che mette a rischio industrie e settori produttivi.

Alcuni dati bastano a sottolinearlo: a giugno l’inflazione ha raggiunto l’8,6% nel Vecchio Continente, secondo Citigroup le forniture energetiche possono arrivare a costare per l’Europa intera 1,2 trilioni di euro nel 2022, un dato pari a oltre il 60% del Pil italiano, le stime di crescita della Commissione per ora interiorizzano un rallentamento del rimbalzo post-Covid che porterà molte economie a non riprendere i livelli pre-pandemici prima del 2024.

Ma non è solo l’Ucraina a fungere da spartiacque. Se guardiamo ai dati della produzione industriale nel Vecchio Continente, da ottobre 2021 la crescita post-Covid si è interrotta con un assestamento a crescita zero e da lì si sono registrati quattro mesi di contrazione e solo tre di espansione. La bolletta energetica stava crescendo già prima della guerra, ma l’Europa soffriva notevolmente anche la crisi dei chip, simbolo della difficoltà incontrata nel ritrovarsi protagonista delle catene del valore decisive su scala mondiale.

Ad oggi, guardando ai dati, il rischio di una recessione formalmente non c’è. Ma le previsioni della Commissione si sono sempre rivelate incapaci di interiorizzare i trend in via di sdoganamento in questo caotico anno. L’ipotesi di una caduta del Vecchio Continente in recessione non è solo di accademia. Specie se l’Ue dovesse metterci del suo con politiche in grado di accelerare la crisi.

Lo spettro dell’austerità

La proposta della Commissione sull’energia, in tal senso, parla chiaro: si affida la panacea e la risposta più importante alla crisi del sistema economico guidata dai rincari energetici al mito austeritario. L’Unione Europea si prepara a varare l’austerità energetica con l’obiettivo di risparmiare fino a un quinto dei consumi in prospettiva di una tempesta perfetta autunnale. Ma non solo.

Le parole di Christine Lagarde, governatrice della Bcehanno a giugno lasciato presagire che anche l’Eurotower si predisponga a varare una politica più restrittiva. Nonostante la proposta di uno scudo anti-spread per tutelare i Paesi più esposti alla fine degli acquisti, l’aumento dei tassi va proprio in questa direzione.

E anche in seno alla Commissione von der Leyen si è tornati apertamente a parlare di censura sui conti pubblici dei  Paesi, di rientro dai debiti contratti durante la pandemia e di rigore come presupposto per lo sviluppo. Sembra di tornare al mito dell’austerità espansiva sfatato sul campo dopo il 2010-2011. Ma oggi sarebbe ancora più rovinoso: quello che serve all’Europa è una nuova percezione dei problemi dell’economia globale e un focus securitario tutt’altro che secondario, che consenta di separare la risposta alla crisi nei settori più esposti alle minacce geostrategiche, tutelandoli, e l’ordinaria amministrazione.

In tal senso, da Italia e Francia è arrivata nei mesi scorsi una proposta di discontinuità capace di proporre una soluzione alternativa al solito duo fatto di rigore e austerità: un’Agenzia Europea del Debito capace di “digerire” i debiti contratti durante la pandemia, abbassando la spesa per interessi dei Paesi membri e dunque le uscite non produttive dalle casse pubbliche, e mutualizzare su tutto il Vecchio Continente la risposta a una sfida comune. Al contempo, il Recovery Fund andrà valutato nei suoi effetti per capire in che misura l’Unione sia capace di una progettualità comune contro le crisi. E andrà affrontato, infine, l’elefante nella stanza: il rilancio del ruolo geopolitico dell’Euro.

L’Euro nella tempesta

Non è sfuggito agli osservatori il fatto che, dopo una fase iniziale in cui è stato il rublo a essere maggiormente colpito, l’Euro è risultato finora la moneta più penalizzata dalle turbolenze del 2022. E la “crisi della crisi” e i rischi recessivi c’entrano non poco in tal senso. A inizio guerra scrivevamo che l’euro potrebbe essere il grande sconfitto di questa fase e contribuire alla recessione comunitaria, in quanto “può essere penalizzato in quanto facente riferimento, ora più che mai, a un’area geopolitica di secondo piano; può veder ridotto il suo raggio d’azione dall’assenza di una vera politica di mutualizzazione del debito che crei a livello europeo un asset finanziario sicuro; infine, diventa una valuta in termini relativi più esposta, assieme alle banche del suo sistema e all’economia nel suo complesso, alle brusche fluttuazioni del tasso di cambio”. Così è stato.

Un’Europa con una moneta in relativo indebolimento e ora in sostanziale parità col dollaro che paga materie prime e prodotti a mercati esteri denominandoli in valute terze e si trova di fronte a rischi recessivi e inflattivi interni è un’Europa fragile. L’Euro è una questione derivata dell’economia continentale ma può essere una delle chiavi per far tornare, gradualmente, il Vecchio Continente nel solco dei mercati di riferimento del pianeta. L’Europa dovrebbe capire il ruolo geopolitico della moneta, iniziare a utilizzarlo con forza negli acquisti energetici e negli accordi commerciali, utilizzarlo come alleato ma non subordinato del dollaro mentre il mondo va verso il decoupling tra gli Usa e i suoi rivali. Bisogna uscire dalla mentalità Anni Ottanta della svalutazione competitiva che legge tutto il contesto valutario in termini di volano all’export per le monete indebolite: dai chip al petrolio, dal gas alle derrate alimentari, l’Europa paga di più i fattori produttivi di cui ha maggiore bisogno in questa fase e un rafforzamento, monetario e politico, dell’euro è una delle chiavi per evitare la crisi assieme al rifiuto di nuova austerità. L’alternativa è morire d’ingavia o per colpa di ricette già sperimentate in forma fallimentare in passato.

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