Crisi commerciale tra Stati Uniti e Cina, tracollo delle valute di economie emergenti (Argentina, Iran, Turchia), innalzamento dei tassi da parte della Fed e conseguente drenaggio dall’economia globale di miliardi di dollari in valuta, fine del quantitative easing in Europa e insostenibilità dei debiti corporate: nelle scorse settimane l’economia globale è stata interessata da ripetute ondate di incertezza, concretizzatesi in un’accelerazione della volatilità nei mercati borsistici globali, che ha iniziato a far palesare i timori riguardanti lo scoppio di una nuova, gravissima crisi finanziaria nel medio periodo.

E se i fattori sopra citati sono i potenziali determinanti di una nuova, pericolosa situazione di precaria instabilità, è giusto chiedersi se, di una potenziale nuova crisi, esistano rebus sic stantibus i detonatori e i sintomi.

In entrambi i casi, purtroppo, la risposta è corretta. Sul primo versante la difficile gestibilità dei debiti aziendali di colossi come General Electric è tanto causa di instabilità quanto possibile determinante di un crac di ampie proporzioni. Ciò deve essere letto in combinato disposto con la precaria condizione di colossi bancari come Ing, BbvaBarclays, Ubs, Santander e Rbs, che in poche settimane hanno bruciato un terzo del loro valore capitalizzato, per non parlare del “malato d’Europa” per eccellenza, Deutsche Bank, oramai allo sbando.

Il sostegno delle banche centrali va via via diminuendo

Parlando della difficile situazione dell’Eurozona, Aldo Giannuli ha scritto che “La crisi del 2008 ha travolto l’equilibrio del sistema” economico-finanziario: “L’alluvione di liquidità delle banche centrali (Fed e Bce in testa) ha fermato il crollo per impedire un effetto di reazioni a catena, ma il tentativo è riuscito parzialmente ed è tutto da dimostrare che la baracca si manterrà in piedi fra due mesi, quando finirà il Qe”.

Dopo un decennio nel quale i bilanci delle grandi banche centrali erano cresciuti in aggregato da meno di 10mila e oltre 25mila miliardi di dollari – fino a un terzo del prodotto lordo di del mondo – ormai è iniziata la “grande ritirata”, come sostiene il Corriere della Sera. A suonarne l’inizio, le scelte restrittive delle banche centrali di Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito, Giappone: “Pur muovendosi con gradualità e partendo da zero, la Fed ha già alzato i tassi sei volte dal 2015 e soprattutto ora sta restringendo il suo bilancio al ritmo di 50 miliardi al mese. A gennaio la Banca centrale europea smetterà di creare sempre nuova moneta in più con gli acquisti di mercato del ‘quantitative easing’, mentre anche la Banca del Giappone va verso un graduale rallentamento degli interventi”.

E questo è un fatto importante, un sintomo della potenziale crisi che va considerato, al tempo stesso, come non secondario elemento scatenante: innalzando i tassi le banche centrali puntano a frenare il circolo vizioso di speculazione borsistica alimentata dai bassi tassi di interesse, ma rischiano di ritrovarsi a corto di liquidità nel caso in cui l’economia internazionale si trovi costretta a mediare con una nuova recessione.

Il termometro della crisi: le incertezze in Borsa

Ma nessun sintomo di una nuova crisi è importante quanto quello segnalato dal “termometro” borsistico. L’incremento della volatilità nei mercati segnala l’ingresso in una fase di turbolenza. Come visto, gli elementi in gioco sono tanti e di tale portata da incrementare la complessità del “Grande Gioco” finanziario che va in scena su scala globale.

Da inizio ottobre l’ S&P 500 di New York ha bruciato più di 1.200 miliardi di dollari, il Nasdaq quasi altri mille e lo Eurostoxx 600 – l’indice europeo più ampio – circa altrettanto, avendo registrato nei giorni del caso-Huawei le perdite peggiori dai tempi del referendum sulla Brexit. Ogni singola fibrillazione economica o geopolitica causa un’alta marea finanziaria che erode la residua fiducia degli investitori.

Nei meandri delle borse statunitensi è intanto suonato il primo campanello d’allarme: a inizio dicembre, scrive Il Sole 24 Ore, ” il tasso dei Treasury a 2 e 3 anni ha superato quello della scadenza a 5 anni. Per ora si tratta di un centesimo o poco più: un movimento quasi impercettibile, ma da non sottovalutare perché non si verificava addirittura dal 2007 e soprattutto perché in passato è stato profeta di sciagure, per l’economia e per i mercati azionari. Di solito gli analisti mettono a confronto i tassi a 2 e 10 anni, e su questo orizzonte il temibile evento non si è ancora consumato. Non siamo però molto lontani: mancano appena una dozzina di centesimi per tornare indietro a situazioni che negli Stati Uniti si sono verificate (come si vede nel grafico sotto) alla fine degli Anni Ottanta, nel 2000 e ancora nel 2006-2007. Alla vigilia cioè di altrettante fasi di recessione economica”.

Ciò acquisisce significato pregnante nel momento in cui influisce su un nuovo, mancato aumento dei tassi d’interessa da parte della Fed, sinora annunciato e mai attuato. Il think tank Capital Economics ritiene che, ogniqualvolta la curva dei rendimenti dei Treasury diviene molto piatta o inizia addirittura a invertirsi, il mercato azionario tenda a far fatica nei successivi due anni, proprio perché l’economia inizia a indebolirsi e pronostica un calo del S&P 500 nel 2019.

Con il 2020 cerchiato in rosso come anno di maggiore rischio per la deflagrazione di una nuova crisi. Ne è convinto l’economista Nouriel Roubini, che ha espresso le proprie tesi su Project Syndacate: secondo Roubini, “la crescita attuale globale continuerà probabilmente fino all’anno prossimo, se si considera che gli Stati Uniti stanno accumulando elevati livelli di deficit fiscali, che la Cina sta lanciando politiche accomodanti sia sul fronte fiscale che del credito, che l’Europa rimane su un sentiero di ripresa. Ma, entro il 2020, le condizioni saranno mature per una crisi finanziaria, che sarà seguita da una recessione globale”.

Quanto scritto non sembra una profezia di sciagura, ma una previsione di tendenza tutt’altro che infondata. L’accumulazione delle diverse contraddizioni del sistema capitalistico globale e la mancata interiorizzazione delle lezioni del 2007-2008, che invitavano a maggiore moderazione e ponderatezza nell’agone finanziario, rischiano di portare l’economia globale verso una nuova, grave crisi quando ancora si pagano le conseguenze della tempesta scatenata dal crac di Lehmann Brothers.





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