La pandemia di Covid-19 è stato un fattore di perturbazione del sistema economico globale e ha accelerato diverse dinamiche riguardanti il suo sviluppo. Come si riprenderà, sul lungo periodo, l’economia globale dalle conseguenze della pandemia? Che scenari aprirà l’intersezione della crisi pandemica con l’altra grande questione dei nostri tempi, la crisi ambientale e climatica? Si sta avvicinando una nuova “Grande Tempesta” per i nostri sistemi economici? Di questi temi parliamo con lo storico dell’economia Adam Tooze, professore alla Columbia University e ex direttore del dipartimento di International Security Studies dell’Università di Yale, ruolo in cui è succeduto a uno studioso del calibro di Paul Kennedy. Il suo saggio più celebre è Lo Schianto (Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World), un affresco delle conseguenze economiche, finanziarie e geopolitiche della Grande Recessione del 2007-2008 e delle dinamiche prodottesi nel corso del decennio successivo. Nello scorso settembre Tooze ha dato alle stampe il suo lavoro più recente, Shutdown: How Covid Shook the World’s Economy.
Professor Tooze, come il virus ha impattato sul sistema economico globale nel 2020?
“In un certo senso gli effetti della pandemia sono stati uno sviluppo delle dinamiche economiche sviluppatesi nel precedente mezzo secolo. Il Covid-19 ha impattato come uno shock esogeno su un contesto globale che si trovava da tempo in una situazione estremamente tesa. Le dinamiche economiche e geopolitiche che ho descritto ne Lo Schianto erano ancora presenti negli anni 2019 e 2020, in cui il contesto globale era attraversato da forti tensioni. Negli Stati Uniti, ad esempio, nel 2019 era ancora presente l’instabilità finanziaria che aveva condotto alla crisi del 2008, mentre la rivalità con la Cina era diventata esplicita e la contesa geopolitica condizionava il commercio, la politica globale, l’agenda dell’amministrazione americana. Nel mio saggio ho provato a raffigurare un nesso causale tra crisi economica, tensioni politiche, dinamiche geopolitiche su cui il Covid ha avuto un impatto generale”.
In questo contesto, che elementi di novità ha aggiunto il virus?
“Ha reso chiaro e inequivocabile il problema dell’instabilità finanziaria su scala mondiale; ha esposto le problematiche nella governance economica globale; ha mostrato esplicitamente le problematiche nella costituzione politica degli Stati Uniti. Il virus chiaramente non è la causa ultima di tutte queste problematiche, ma ragionando in forma complessa possiamo affermare con sicurezza che ha contribuito a una decisiva accelerazione di queste crisi, oltre a portare a un’ulteriore escalation nella sfida tra gli Usa e la Cina”.
Un’escalation che spesso è stata direttamente legata alla pandemia. Pensiamo alla campagna presidenziale di Trump nel 2020…
“Sì, nella mente di buona parte del popolo trumpiano esisteva un nesso causale tra l’esplosione del Covid, la lotta interna alla pandemia, il confronto geopolitico con Pechino e il braccio di ferro interno con i democratici e la sinistra. Dal dibattito sulle mascherine all’analisi delle conseguenze del movimento Black Lives Matter, nelle menti dei più radicali sostenitori di Trump e di membri del Partito Repubblicano come Ted Cruz questi elementi erano visti come parti di un’unica crisi, di una manovra attraverso cui il tradizionale stile di vita americano avrebbe potuto essere sovvertito. E questo ci induce a pensare che un’ulteriore importante conseguenza della pandemia sia stata l’estrema polarizzazione tra le componenti della politica americana”.
Del resto questa polarizzazione si lega fortemente alla fragilità del sistema americano di cui lei parlava. Come potranno in prospettiva i piani e i progetti promossi dall’amministrazione Biden per rafforzare la coesione sociale e l’economia americana contribuire a cambiare questa situazione?
“Sono molto pessimista a riguardo. Penso che i Democratici abbiano provato a ipotizzare una strategia cpaace di cambiare le basi dello sviluppo americano, in una via simile a quanto fatto in Europa dalla Commissione di Ursula von der Leyen per promuovere la trasformazione dell’economia europea attraverso il Green New Deal e politiche sostenibili. In entrambi i casi parliamo di un riconoscimento centrista dei problemi dell’economia diagnosticati dalle ali più radicali dello spettro politico. Negli Usa il funzionamento del sistema politico rende molto più complesso traduttore questa diagnosi centrista dei problemi in politiche attive. I Democratici hanno profonde divisioni interne e su alcune questioni affrontano un Partito Repubblicano fortemente trincerato, fattore che riduce gli spazi di mediazione.
Negli Usa può il compromesso raggiunto sul pacchetto infrastrutturale funzionare come volano per un nuovo consenso bipartisan?
“Il pacchetto di cui lei parla è ridotto di dimensioni rispetto alla scala dei problemi dell’economia americana e il suo impatto sarà solo una frazione di quello che, per esempio, Next Generation Eu avrà sull’economia italiana in rapporto al Pil. Se pensiamo che anche il Recovery Fund difficilmente sarà una soluzione ai problemi economici dell’Italia, possiamo ritenere il piano infrastrutturale di Biden solo un piccolo passo. L’impasse rimane, e i Democratici legiferano su una maggioranza talmente risicata da ritenere difficili azioni di rottura capaci di rispondere ai problemi sociali del Paese o alla crisi climatica”.
C’è una barriera che blocca l’azione politica, insomma?
Si. La diagnosi corretta dei problemi spesso non porta ad azioni che possano risolverle. Inoltre, se vogliamo capire l’attuale crisi politica negli Stati Uniti dobbiamo anche considerare il fatto che a Washington è carente il supporto politico ad azioni strategiche capaci di guidare la transizione sia nel settore energetico che nel sistema capitalista europeo hanno dimostrato di poter funzionare. Pensiamo solo ai casi delle utilities energetiche di Italia e Spagna. Esistono alcune eccezioni, ad esempio nel campo della transizione dell’industria dell’auto verso l’elettrico, ma la grande questione sarà capire come questo modo di pensare potrà estendersi ad altri settori. Gli Stati Uniti necessitano che i partiti non pongano un freno a questi processi”.
La crisi climatica, in quest’ottica, appare una priorità nel dibattito contemporaneo. In tempi di pandemia, abbiamo visto come questa possa convergere con i problemi del Covid-19, amplificandoli. Possiamo aspettarci una “Grande Tempesta” su scala globale da questa convergenza?
“Pandemia e crisi ambientale possono convergere localmente per produrre “tempeste perfette” su scenari localizzati, come dimostrato chiaramente dai problemi emersi durante la recente ondata di incendi in California. I roghi sono esplosi in un periodo in cui l’ondata di Covid ha spopolato i ranghi delle squadre anti-incendio formate dai detenuti, una componente chiave della strategia di tutela dello Stato, a causa dei lockdown imposti a diverse prigioni per la diffusione del contagio. La cosa interessante che tengo a sottolineare è il fatto che in un orizzonte di venti o trent’anni la massima sfida per l’ambiente e i cambiamenti climatici sarà, piuttosto che globale, regionale o al limite macroregionale”.
Dove si concentreranno le minacce?
“Il problema grave è il fatto che le sfide ambientali si concentreranno nelle regioni più povere del pianeta, dall’India al Medio Oriente, dai Caraibi alle aree più depresse degli Usa. Da tifoni devastanti a siccità prolungate, da crisi energetiche a roghi incontrollati, queste sfide si manifesteranno in forme molto diversificate”.
Quali saranno le conseguenze economiche di queste sfide?
“Ad oggi ritengo che difficilmente potranno causare uno shock paragonabile a quello pandemico del 2020. Questo potrebbe emergere solo per la convergenza e la somma di più crisi regionali in contemporanea negli scenari più estremi, come quelli imposti da un’ondata di riscaldamento globale accelerato. Oggigiorno la crisi climatica è concentrata in aree del mondo in via di sviluppo, mentre la natura unica della pandemia di Covid-19 è stata la simultaneità con cui si è diffuso, nel giro di poche settimane, nei tre principali poli dell’economia globale, ovvero Cina, Europa e Stati Uniti. Questo è difficile da immaginare sul fronte climatico, dove però una tempesta perfetta non è da escludere per il prossimo futuro. Possiamo anche pensare a incidenti paragonabili a quello di Fukushima o a shock energetici capaci di causare cambi di politiche globali, ma questo necessariamente dovrà esser mediato da decisioni istituzionali. Siamo ancora distanti da un equivalente climatico del 2020 pandemico. Ma non dobbiamo dimenticare che le aree regionali e macroregionali sono profondamente integrate su scala mondiale, e ad esempio una crisi legata a dinamiche climatiche, come un’ondata migratoria dal Sahel provocata da siccità e problemi demografici, può causare conseguenze politiche in scenari distanti, come l’Unione Europea”.