Gli ultimi mesi sono stati cruciali per comprendere le evoluzioni del mercato mondiale dell’acciaio, la cui importante componente europea (seconda produttrice mondiale con il 10% della quota) da 168 miliardi di tonnellate l’anno è stata messa in fibrillazione dal caso Ilva. Il colosso della siderurgia italiana, erede della Finsider di Oscar Sinigaglia, è finito in mezzo alla disputa tra il governo italiano eil gruppo franco-indiano Arcelor Mittal.
Tra evocazioni di un “ritorno” alla fase di gestione pubblica incentrata sull’Iri, un legittimo rimpianto per come la privatizzazione è stata condotta negli Anni Novanta e un braccio di ferro logorante tra il governo e Arcelor-Mittal si sta consumando il deperimento di un polo strategico per un settore che in Italia produce il 2% dell’occupazione manifatturiera e gestisce un indotto che garantisce circa l’1,5% di Pil.
L’acciaio italiano soffre, assieme a quello europeo, la grande concorrenza dei produttori cinesi e indiani, che offrono crescenti quantitativi di prodotto a prezzi notevolmente inferiori, legati principalmente alle più lasche regolamentazioni ambientali e al minor costo del lavoro.
Arcelor-Mittal, colosso da 96 milioni di tonnellate prodotte ogni anno, è in questo contesto sottoposta all’accusa di aver pensato all’exit strategy di forzare lo spegnimento degli altoforni e la chiusura sostanziale di Ilva in maniera simile a quanto fatto col polo rumeno di Hunedoara, in cui è stato operato un processo calcolato di depotenziamento e riduzione della produzione finalizzata a distruggere capacità potenziale e, in tal senso, aumentare i prezzi di mercato.
“In Europa il settore rappresenta l’1,3% del pil. Nell’insieme dà lavoro a quasi 2,5 milioni di persone. Direttamente a circa 330 mila. È un settore ad alta intensità di capitale che investe ogni anno circa 4 miliardi di euro in macchinari più moderni”, fa notare Italia Oggi. Ciononostante, il continente storicamente “patria” della produzione dell’acciaio, che fu tra i motivi di stimolo alla costruzione dei mercati europei comuni dopo l’ultimo conflitto mondiale, è in continua recessione di fronte alla concorrenza mondiale.
La World Steel Association segnala che la produzione mondiale di acciaio è passata dall’1 miliardo e 238 milioni di tonnellate del 2009 all’1 miliardo e 816 milioni di tonnellate del 2018, incremento legato principalmente all’esplosione della produzione cinese. Affamata di materiali produttivi per alimentare i due grandi business del suo mercato interno, manifattura e costruzioni, Pechino ha dilatato la sua quota da 577 a 928 milioni di tonnellate l’anno, contando per oltre metà del mercato globale e surclassando l’Europa.
Il dilatarsi della produzione ha causato un crollo dei prezzi che ha messo in crisi numerosi produttori europei e statunitensi, gravati da costi operativi e securitari ampiamente maggiori, favorendo l’ingresso di dinamici capitali stranieri nel settore, come dimostrato dal recente acquisto di British Steel ad opera di operatori dell’Impero di Mezzo.
“L’Europa, quindi, rischia di diventare dipendente dalle forniture estere di un materiale fondamentale per la sua economia”, prosegue Italia Oggi. “Senza considerare le garanzie e la qualità del prodotto importato. Di conseguenza, i produttori europei sono in crisi e molti hanno deciso di tagliare produzione e occupazione. Anche le loro azioni sono in caduta nelle borse”, mentre al contempo qualsiasi azione di contrasto a tale processo è bloccato dal fatto che la World Trade Organization non distingue tra diversi tipi di acciaio, da quello grezzo a quelli speciali di maggior valore aggiunto, in sede di imposizione tariffaria.
L’Europa rischia di perdere la corsa all’acciaio per minore dimensione della sua economia di scala e per scarso coraggio da parte di governi e operatori pubblici a invertire la tendenza nel settore. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano, Oscar Sinigaglia, avvio l’epopea della Finsider ragionando su un assunto semplice: senza acciaio non c’è industria. Nell’era globalizzata, potremmo rileggere l’assunto come: senza una politica strategica per l’acciaio, non ci sarà più industria. La crisi del settore chiave per la politica industriale ci ricorda quanto importante l’economia reale, del lavoro fisico e produttivo, per il futuro dei nostri sistemi. L’Europa, che con il suo ordinamento ha voluto proteggere i flussi di capitali a costo della produzione manifatturiera, stenta a rendersene conto, i Paesi in rampa di lancio, o già decollati come la Cina, non fanno lo stesso errore. Con conseguenze problematiche per il Vecchio Continente.