La crisi alimentare globale legata alla guerra russo-ucraina e al contesto globale da essa perturbato non appare più un rischio, ma un fatto in via di dispiegamento. L’effetto contagio del blocco del grano ucraino, delle sanzioni al prodotto russo, della difficoltà di approvvigionamento di fertilizzanti (che vedono in Mosca un semi-monopolista nella produzione) e della sfiducia globale sta già facendo sentire i suoi effetti. Il Segretario al Tesoro americano Janet Yellen nella giornata del 16 maggio ha dichiarato che Washington ha preso atto di questa minaccia che, su queste colonne, era stata paventata fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina.

Russia e Ucraina coprono una parte consistente delle esportazioni globali di grano (35%), orzo (25%) e olio di girasole (75%) oltre a produrre quote importanti di mais e colza, materie prime vitali per l’industria alimentare europea, prima tra le manifatture alimentari mondiali ma anche e soprattutto per la sussistenza di centinaia di milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo. La “bomba” della fame può travolgere contesti geopolitici perturbati come Africa sub-sahariana, Medio Oriente e Maghreb, regioni in cui sono circa cinquanta Paesi, che ricevono più del 30% del loro grano dalla Russia e dall’Ucraina. Inoltre può mettere in moto rivolte, processi migratori, sfide sistemiche che insistono su aree come quella del Mediterraneo, in cui l’Italia si trova a dover affrontare i rischi di perturbazioni sempre più forti. In aree già colpite dalla desertificazione e dai cambiamenti climatici, in una fase in cui, come del resto anche in Ucraina, l’acqua e la sua disponibilità sono asset critici e in cui persistono forti disuguaglianze economiche e problematiche quali il land grabbing lo spettro della crisi alimentare arriva come grave problema economico.

In altre parole, come in molte altre fasi critiche della storia, la crisi alimentare e le possibili carestie possono esplodere non tanto per una concreta carenza di raccolti e cibo quanto piuttosto per il combinato disposto tra lo smantellamento delle tradizionali catene del valore connesse su scala globale e il picco dei prezzi. In crescita già prima della guerra, l’indice mondiale dei prezzi della Fao ha toccato, nella rilevazione mensile di febbraio, un nuovo masismo storico. Record sbriciolato a marzo, quando il Food Price Index e il Cereal Price Index, suo sottoinsieme più rilevante, hanno toccato livelli massimi ancora più alti che ad aprile si sono assestati vicini al picco. Fatto 100 il prezzo medio di un paniere di diversi tipi di materie prime agricole (cereali, olii vegetali, carne, zucchero e latticini) nel biennio 2014-2016 l’indice ha raggiunto i 160 punti e, nel comparto cerealicolo, i 169 punti. Un rincaro notevole trainato dal prezzo della più strategica di queste materie prime, il grano.

I prezzi del grano sul mercato mondiale sono saliti del 79% nell’ultimo anno e il 24 febbraio ha inaugurato un trend di crescita che in pochi giorni ha condotto il prezzo al bushel da 706 a 1253 dollari, frantumando i record raggiunti ai tempi della crisi del 2008. Questo sta già destabilizzando Paesi come Libano, Tunisia, Siria che possono essere i primi grandi perdenti della crisi alimentare. E mentre il grano ucraino cerca faticosamente di trovare la via dell’estero e quello russo ha un futuro incerto, Paesi come l’India alzano le barriere all’export e si ritiene che altri Stati possano essere presto travolti.

L’Egitto nella tempesta

Il più importante di questi è l’Egitto, che dipende per il 92% dalle forniture di grano dall’estero e per il 70% da Ucraina e Russia. Il pane è centrale nell’alimentazione egiziana, tanto da essere chiamato aish, letteralmente “vita”. Nel 2011 la bomba dei prezzi del cibo fu una delle cause che portò Il Cairo, oltre che Tunisi, a esplodere nelle Primavere Arabe. E in un Paese in cui circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, c’è il rischio che “quando i prezzi saliranno e i poveri non potranno sfamare le loro famiglie, scenderanno in strada” nuovamente, come ha avvertito in aprile Kristalina Georgieva, direttrice generale del Fondo monetario internazionale. Da tempo il governo di Abdel Fatah al-Sisi si era trovato nella difficile situazione di dover gestire, come calmiere sociale, un contesto caratterizzato da elevati sussidi governativi ai cittadini per comprare grano e pane a prezzo contenuto.

“Non è realistico che venda 20 pagnotte allo stesso prezzo di una sigaretta”, aveva detto al-Sisi lo scorso anno. Ora la sua previsione sull’insostenibilità di questo sistema rischia di avverarsi per i rincari ai prezzi e la difficoltà dell’Egitto di trovare alternative. Il grano proveniente dalla Francia è stato in passato considerato troppo umido per l’Egitto. Altri grandi esportatori come l’Australia o il Canada portano con sé notevoli costi aggiuntivi in ​​termini di trasporto, soprattutto in un periodo di alti prezzi del carburante. Il prezzo medio per tonnellata importata rischia di alzarsi mediamente di cento dollari per i cittadini egiziani.

Il dramma dell’Africa

In Africa, poi, diverse nazioni a sud del Sahara rischiano batoste notevoli. Appoggiandosi principalmente sulla Russia ma non disdegnando neanche le forniture ucraine, diversi Stati in questi anni hanno promosso campagne di approvvigionamento di grano proveniente dalle pianure sarmatiche sviluppando livelli notevoli di dipendenza: un rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad) ha sottolineato la quota di dipendenza complessiva sulle importazioni di grano russo e ucraino di Stati come la Tanzania (64%), il Senegal (66%), la Repubblica Democratica del Congo (69%) e il Sudan (75%). Dati ben al di là di ogni forma di sicurezza.

Secondo il rapporto diciassette nazioni in via di sviluppo dell’Africa e una dell’Asia, il Laos, hanno dipendenze superiori al 50% dagli approvvigionamenti russo-ucraini. Tra questi il Ruanda, dove il terrore della trappola malthusiana e la competizione per le terre e le risorse alimentata dalla fame scatenò nel 1994 la furia del genocidio, e il Madagascar, oggi alle prese con la peggiore siccità da mezzo secolo in avanti. Due Stati arrivano a una dipendenza totale dalle importazioni dai due Paesi: il Benin, che importa solo dalla Russia, e la Somalia, per poco meno del 70% rifornita dall’Ucraina.

L’Ong Oxfam ha sottolineato che unendo a questo dato la dipendenza da olii vegetali e altre risorse alimentari ben 250 milioni di persone in più potrebbero soffrire la fame per motivazioni economiche da qui alla fine dell’anno e 860 milioni di persone al mondo vivere in condizioni di povertà assoluta, principalmente in Africa. Oxfam ha affermato che l’aumento dei costi alimentari rappresenta il 17% della spesa dei consumatori nei paesi ricchi, ma fino al 40% nell’Africa subsahariana. L’impatto si farà sentire anche nelle economie più ricche, compresi gli Stati Uniti, dove il quinto più povero delle famiglie spende il 27% del proprio reddito in cibo, rispetto al solo 7% del quinto più ricco.

Gli altri fronti di crisi

Non mancano, poi, gli altri terreni caldi. Il 2021 ha lasciato in eredità la drammatica carestia dello Yemen devastato dalla guerra, la più dimenticata delle guerre. La cui risoluzione rischia di passare ora in secondo piano di fronte al caos mondiale dell’Ucraina. E dall’Afghanistan talebano all’Iraq e alla Palestina, il Grande Medio Oriente presentava già diversi scenari di insicurezza alimentare.   La crisi alimentare è uno dei fattori che hanno innescato le proteste che hanno portato alle dimissioni del governo e all’applicazione del coprifuoco in Sri Lankamentre “rivolte del pane” si sono verificate in Iran. E non finisce qui.

“La scarsità di fertilizzanti pregiudica la capacità di aumentare la produzione di altri grandi paesi esportatori come il Brasilenota Il Fatto Quotidiano, che cita inoltre Bangladesh, Pakistan e Indonesia come Paesi che dalla carenza di cibo dall’Ucraina e dalla Russia possono pagare dazio in misura consistente, per quanto inferiore a quella dei Paesi africani e del Laos.

L’ex Ministro dell’Agricoltura italiano Maurizio Martina, oggi vicedirettore della Fao, ha scritto su Formiche che “circa un decimo della popolazione mondiale è sottoalimentato e circa tre miliardi di persone non hanno accesso a diete sane. Tutte le regioni del mondo stanno ripensando i propri sistemi agroalimentari”. Per Martina, il protezionismo rischia di essere un errore ma anche l’idea stessa di una globalizzazione assoluta del mercato alimentare globale, per il futuro, può distorcere. I Paesi in crisi sono quelli che meno hanno avuto la possibilità di diversificare le fonti, come accade per i Paesi europei travolti dalla crisi energetica.

Martina propone un assetto alternativo noto come ““riglobalizzazione selettiva, suddiviso per grandi aree geografiche, finalizzato a rendere più efficienti gli scambi – e l’utilizzo delle risorse – in funzione delle caratteristiche locali”. Questo anche per rafforzare l’autonomia alimentare di aree come l’Europa e l’interconnessione con i mercati di riferimento nell’area dell’estero vicino. Sarà dura arrivare in tempi brevi a un assetto chiaro. L’energia può essere gestita attraverso gli stock e i razionamenti, il cibo, specie il pane, serve all’istante e la sua carenza si fa sentire nei Paesi più poveri e instabili. Dopo la pandemia, la bomba energetica, la guerra russo-ucraina e l’inflazione galoppante, la crisi alimentare si propone come quinto shock globale degli ultimi due anni. E nei prossimi mesi farà sentire i suoi effetti. Paesi come l’Italia, già in trincea per problematiche legate a economia ed energia, sono avvertiti: vanno previste tutte le sue conseguenze, dai termini commerciali al potenziale impatto sociale e migratorio.





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