Per entrare nell’euro, l’Italia ha investito le energie di un decennio interno e ipotecato i due successivi. Non è un eufemismo: dopo aver, soprattutto nell’era dei governi tecnici e di centrosinistra, dedicato all’appuntamento fissato a partire dal Trattato di Maastricht le risorse politiche del Paese negli anni Novanta, l’Italia si è trovata a vivere un rapporto difficile con la moneta unica dopo la fase di bonaccia che contraddistinse la fase tra l’entrata in corso legale dell’euro e la crisi economica del 2007-2008.
Indro Montanelli, in uno dei suoi motti più taglienti, affermò che, al momento della costituzione dell’Europa unita, i francesi vi sarebbero entrati da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei. Gli Stati Uniti d’Europa sono tutt’oggi una prospettiva più che remota, ma per quanto riguarda l’approccio all’euro l’aforisma di Montanelli risulta confermato appieno. Nessun Paese avanzato dell’Europa conosce un’asimmetria tanto ampia tra le problematiche concernenti la sua relazione con l’euro e l’arretratezza del dibattito in materia nel ceto politico, nella classe dirigente e nel mondo accademico.
L’Italia è tra i perdenti dell’euro
Nel suo ultimo saggio, ad esempio, Carlo Cottarelli ha ammesso che l’Italia ha un problema nel suo rapporto con l’euro, ma al tempo stesso ha puntato a invertire l’ordine degli addendi: secondo l’economista, infatti, il Paese sconterebbe oggigiorno il fio dei suoi “peccati capitali” che hanno fatto sì che esso si presentasse impreparato all’appuntamento con la moneta unica, foriera invece di opportunità ineguagliabili per chi vi si fosse fatto trovare pronto. I dati e l’evidenza sembrano smentire una posizione tanto netta.
Come si legge sul report pubblicato da Bloomberg per il ventesimo anniversario della moneta unica: “Vent’anni di adesione all’euro non hanno portato nulla all’Italia. Legando la sua economia ad alta inflazione all’export tedesco senza adottare misure per aiutare le imprese a competere, l’Italia ha perso una guerra di logoramento” senza che la sua classe dirigente facesse nulla per impedirlo. Tesi, del resto, avallata dai numerosi Nobel per l’Economia che hanno parlato contro l’euro.
Risulta, in questo contesto, difficilissimo da spiegare con il riscontro della realtà la serie di mantra con cui i più strenui difensori italiani dei dogmi sull’euro presentano l’adesione italiana alla moneta unica come un successo incontrastato. Uno di questi, duro a morire, esalta la capacità dell’euro di garantire una convergenza dei rendimenti tra i titoli di Stato dei Paesi aderenti. Fatto vero per i primi anni dell’unione monetaria, ma non per i successivi, con lo spread a testimoniare la “febbre” dell’Eurozona e la composizione del debito pubblico italiano a mostrare l’altra faccia della medaglia.
Debito e austerità
Oggi, infatti, “sono gli investitori non-residenti in Italia a possedere la fetta più consistente del nostro debito pubblico. Gli investitori stranieri possiedono il 35% (738 miliardi di euro) del debito italiano. Le banche detengono il 26% del debito pubblico italiano mentre altre istituzioni finanziarie, come assicurazioni e fondi, ne hanno in mano il 18%”. La riduzione del rendimento medio si è accompagnato a una progressiva sottrazione di risorse al Paese attraverso l’uscita degli interessi sul debito, che hanno vanificato anni di politiche, poco lungimiranti, di ricerca di un avanzo primario sui conti pubblici.
E qui veniamo al secondo punto cruciale: l’austerità e la distruzione della domanda interna. Da metà anni Novanta lo Stato italiano spende meno di quanto incassi e vede i deficit di bilancio costruiti unicamente sulla scia degli interessi da pagare sul debito accumulato. L’Italia è in austerità, di fatto, da prima che l’austerità diventasse un tema di discussione. E questa austerità ha eroso, progressivamente, soprattutto gli investimenti pubblici produttivi, contribuendo alla distruzione di un quinto della capacità industriale del Paese nell’ultimo decennio e al calo del 12% della spesa dei cittadini nel mercato interno nonostante l’ottimo andamento dell’export.
Lega e Cinque Stelle non rompono il fronte dell’austerità
Campione dell’austerità fu Mario Monti, che rispettò il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil nel 2012 e nel 2013, in una fase in cui tutta l’Europa correva con disavanzi tra il 5 e l’8%. Ma, a ben guardare, i governi a guida Pd hanno fatto più austerità di Monti, e il governo Conte, a guida leghista e pentastellata, più austerità di quelli Pd, strappando dopo una lunga trattativa con la Commissione un deficit al 2,04%.
E del resto, l’avvenire pare lasciar presagire un nuovo inasprimento. Né il Movimento Cinque Stelle, il cui reddito di cittadinanza somiglia troppo alle leggi Hartz dell’austera Germania, né la Lega, che con l’autonomia differenziata prevede di importare a livello subnazionale le stesse logiche di limitazione dei trasferimenti che ingessano l’Unione Europea, hanno lo spessore politico per un reale cambio di paradigma.
Ammesso che lo desiderino veramente. Perché le regole europee e i loro mandarini seguono, troppo spesso, logiche tutte loro e si limitano ad un’applicazione pedissequa. Ma le classi dirigenti italiane appaiono, tutt’ora, eccessivamente influenzate dall’ideologia del “vincolo esterno”. Ossia dal presupposto secondo cui sia buona cosa che, come ha recentemente dichiarato Lucio Caracciolo, “qualcun altro – nel nostro caso l’Unione Europea – ci dica cosa fare”. Intrappolandoci in un circolo vizioso senza uscita.