Nelle ultime settimane la Banca centrale europea ha messo in campo una politica di stimolo monetario che ha amplificato le linee guida già definite dal quantitative easing di Mario Draghi e portato l’Eurotower al centro della risposta comunitaria alla crisi economica da coronavirus.

Con un intervento da oltre 750 miliardi di euro, Francoforte ha portato a 1,1 trilioni l’ammontare totale delle risorse che saranno acquistate sui mercati finanziari da marzo a dicembre.

Il Pandemic Emergence Purchase Program (Pepp) si articola su una serie di sviluppi aggiuntivi rispetto alle linee guida precedentemente fissati dall’Eurotower. La Bce non avrà il vincolo dell’anno come durata residua minima dei titoli da acquistare: tale soglia è abbassata a 70 giorni. Per ogni Paese, Francoforte potrà ora sfondare il limite del 33% di debito pubblico come soglia di controllo del debito e potrà superare tale limite anche per le singole emissioni. Infine, è caduta la capital key, ovvero l’impegno ad acquistare titoli, mensilmente, proporzionalmente al volume di ogni economia. Per l’Italia tale percentuale è pari all’11,8%.

Anche di fronte alle gaffe e all’impreparazione di Christine Lagarde non si può negare che lo stimolo sia imponente. Sorgono però due problematiche di ordine tecnico. La prima è legata all’assenza di garanzie sull’arrivo di tutta la massa di liquidità all’economia reale fiaccata duramente dalla crisi pandemica; la seconda è la difficoltà nella coordinazione con i deficit nazionali.

C’è, in sostanza, il rischio che questa manovra finisca per disperdersi, come buona parte del Qe, nelle gore del gioco borsistico e dell’accumulazione finanziaria, e che non si crei attività economica, lavoro, inflazione. Alla Bce farebbe comodo andare un passo oltre per aiutare le economie dell’Eurozona. Manca, infatti, all’Eurotower un potere decisivo per coprire pienamente lo spettro di attività concesse alle banche centrali di tutto il mondo: quello di prestatore di ultima istanza e di divenire un’istituzione capace di monetizzare i deficit degli Stati membri dell’Unione arrivando a coprire con gli acquisti le emissioni di titoli.

Qualcosa di simile a ciò che in Italia è esistito fino al 1981, anno del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Vincolare, in altre parole, la Banca centrale – in questo caso la Bce – ad acquistare determinate quantità di titoli emessi dai singoli Stati nazionali aprirebbe a una copertura monetaria diretta e garantita dell’indebitamento. A tal proposito, il Giappone è l’esempio classico di Paese che gestisce in maniera diretta e sovrana programmi di questo tipo, attraverso un ruolo politico accentuato della Bank of Japan. Nel 2016 la BoJ ha introdotto il “Quantitative and Qualitative Monetary easing with Yield curve control”, funzionale per combattere la deflazione e bloccare in prossimità dello zero il tasso d’interesse dei titoli di stato decennali, resi di conseguenza un prodotto liquido e sicuro.

“Lo strumento principale con il quale la BoJ agisce sul mercato per raggiungere il suo obiettivo sono le aste a tasso fisso, nelle quali acquista, ad un prezzo prestabilito, una quantità illimitata (o limitata e decisa in precedenza) di titoli governativi”, sottolinea Il Sole 24 Ore. In questo modo la BoJ s’impegna, ogni volta che interviene sul mercato, a comprare la quantità di titoli necessaria a mantenere il tasso d’interesse al livello desiderato. Se per qualche motivo il mercato non è disposto a scambiare a quel prezzo, la BoJ continua ad acquistare fino a quando il tasso non è vicino al livello target”. Il deficit risulta dunque più sostenibile, e in Giappone tale processo è favorito dal controllo del 95% del debito del Paese da parte di soggetti (privati o istituzionali) interni, che seguono dunque le direttive di Tokyo.

Per l’Europa il processo sarebbe meno diretto e più macchinoso per la presenza di una pluralità di attori, ma la ratio di fondo è fondamentalmente la stessa: solo sostenendo il bazooka fiscale con decisione si può sviluppare la consapevolezza che l’Europa possa riprendersi. Permettere alla Bce di fare veramente la banca centrale è nell’interesse di buona parte dei Paesi europei, ma alle orecchie dei “falchi del rigore” rappresenta un anatema: come al solito, sono gli Stati iper-europeisti a parole a rappresentare un vincolo allo sviluppo del Vecchio Continente.





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