Nel comunicato finale dell’Eurogruppo di due giorni fa, al punto 19, appare la proposta di istituire il cosiddetto Recovery Fund per favorire e supportare la ripresa dell’Eurozona, “garantendo finanziamenti attraverso il bilancio europeo a programmi mirati per rilanciare l’economia in linea con le priorità europee e garantendo la solidarietà comunitaria per i Paesi più colpiti”.

L’idea interiorizza le richieste inizialmente espresse della Francia del presidente Emmanuel Macron, che ha proposto l’introduzione di un fondo speciale finanziato dai governi capace di moltiplicare la sua potenza sui mercati emettendo titoli, e sviluppate poi dai commissari Paolo Gentiloni (Affari Economici) e Thierry Breton (Industria). Appare nella deliberazione dell’Eurogruppo l’emersione di richieste provenienti dalla sfera mediterranea dell’Europa di cui fa parte l’Italia, sebbene la proposta resti per ora a livello teorico e non operativo.

Sulla carta, il punto 19 del comunicato dell’Eurogruppo sembra aprire, senza citarli, ai tanto discussi “eurobond”: la richiesta di strumenti “temporanei, mirati e commisurati con i costi straordinari dell’attuale crisi”, capaci di essere “spalmati nel tempo attraverso un adeguato finanziamento” sembra aprire all’emissione di titoli di debito per aumentare la potenza di fuoco della dotazione garantita dagli Stati.

Bruno Le Maire, ministro dell’Economia di Macron e stratega politico con pochi pari nel panorama europeo, ha provato a far saltare il banco: per fare accettare gli Eurobond a Germania, Olanda e altre nazioni rigoriste, era in primo luogo necessario cambiargli nome e ritoccarli in modo tale da farli apparire come una derivata di una politica comune.

Nel dettaglio, nella visione proposta da Le Maire il fondo temporaneo dovrebbe raccogliere una dotazione massima pari al 3% del Pil dell’Unione – più o meno 450 miliardi di euro – destinati a garantire prestiti a lungo termine (15-20 anni) agli Stati membri e, sotto la gestione della Commissione, emettere bond con garanzie comune volti a coprire il finanziamento di servizi pubblici indispensabili, programmi come il Green New Deal e le politiche industriali e d’innovazione europee e il sostegno di settori in difficoltà per la recessione da coronavirus, come automobile, trasporto aereo e turismo.

Il diavolo, come sempre, sta però nei dettagli. Gli scogli da superare sono molti anche in questo caso. L’Eurogruppo ha avanzato la proposta sottolineando che starà poi al Consiglio Europeo, cioè ai leader, decidere se approvarla. E gli aspetti critici che i leader dovranno definire non saranno pochi: il legame tra Recovery Fund e bilancio europeo, il nodo legale della legittimità di eventuali emissioni di titoli, il volume stesso del fondo.

Macron, Giuseppe Conte e il premier spagnolo Pedro Sanchez, i leader più favorevoli al Recovery Fund, si ritroveranno di fronte ossi duri come Angela Merkel e il super-falco olandese Mark Rutte, forti di una vittoria all’Eurogruppo che ha visto la linea basata sugli sturmenti già esistenti da loro perorata essere accettata come soluzione e le proposte dei Paesi del Sud Europa rubricate a una possibilità da esplorare. Ribaltare l’inerzia non sarà facile, e in questo contesto proprio la posizione del presidente Macron, che ha aperto ai falchi accordandosi con la Merkel sul Mes, risulta estremamente ambigua.

Vi è poi la questione del legame del Recovery Fund col bilancio comunitario. L’Unione ha rischiato di andarsi a isolare nelle secche del mancato accordo di bilancio nel febbraio scorso, quando proprio l’Olanda e i suoi alleati del Nord Europa frenarono qualsiasi discussione su programmi più incisivi e cercarono di istituzionalizzare il principio dell’austerità. Trovare la forza di armare il “bazooka” del Recovery Fund sarà una sfida estremamente difficile per i Paesi dell’Unione, e per i mediterranei la partita più complicata sarà il giustificare la necessità di politiche più incisive dopo aver aperto alla proposta tedesco-olandese su strutture ambigue come il Mes.