A partire dal suo ingresso all’Eurotower di Francoforte, Mario Draghi ha caratterizzato la sua gestione della Banca centrale europea come attiva e dinamica, imponendo una discontinuità con la disastrosa direzione Trichet, terminata poco dopo il controproducente aumento del tasso di sconto che nell’estate 2011 aprì la strada alla tempesta dello spread che investì l’Italia nell’autunno successivo.
Mario Draghi, dal 2012 in avanti, ha avuto indubbiamente il grande merito di rappresentare l’unica alternativa credibile alla linea dell’austerità propugnata dalla Germania di Angela Merkel, che aveva rischiato di trascinare sull’orlo dell’abisso il Vecchio Continente. Salvato l’euro dal dannoso zelo dei custodi dell’austerità con il celebre whatever it takes prima e con il quantitative easing poi, Draghi e la Bce non sono riusciti tuttavia a salvarlo da se stesso, ovvero dalle grandi contraddizioni legate alla presenza di una banca centrale senza Stato di riferimento, di un’unione monetaria estremamente rigida e da profonde asimmetrie tra i Paesi dell’unione valutaria.
La Bce è divenuta, per dirla con Carl Schmitt, l’istituzione commissaria dell’Ue, il decisore di ultima istanza in caso di situazioni di crisi o criticità, complice l’imbelle condotta della Commissione, ma ha potuto pescare da un mazzo abbastanza scarno le carte da giocare. E anche sulla politica più importante della gestione Draghi, il quantitative easing, si possono esprimere numerose critiche.
Il Qe, la massiccia politica di acquisto di titoli e obbligazioni da parte della Bce, tra il 2015 e il 2018 ha contribuito ad espandere il bilancio dell’istituto sino al 42-43% del Pil di Eurolandia ma non ha avuto gli impatti previsti su crescita e occupazione. Questo perché buona parte del denaro messo in circolo su iniziativa di Mario Draghi e del suo board è stato drenato nelle gore morte della speculazione finanziaria, alimentando il periodo di vacche grasse che ha espanso, in tutta Europa, gli indici borsistici sino alla metà dello scorso anno, prima che si avviasse una spirale discendente.
“La liquidità immessa con il Qe”, sottolinea Il Sole 24 Ore, “è in buona parte rimasta nel circuito bancario e finanziario e ne ha riparato in parte i danni subiti dalla crisi. Non si è neanche verificata la temuta, e in tanti casi anticipata, inflazione finanziaria: i prezzi degli assets sono sicuramente aumentati, ma non si può certo parlare di una ‘bolla’. Un fallimento? Non esattamente, se si pensa a cosa sarebbe potuto accadere ai prezzi se l’enorme quantità di liquidità creata fosse defluita più rapidamente nel sistema economico”, sebbene ora l’economia europea debba gestire necessariamente la problematica delle imprese rimaste in vita grazie alla boccata d’ossigeno del credito facilitato e ora costrette a finanziarsi con maggiore difficoltà.
Nelle mosse della Bce è mancata la volontà politica di puntare a un deciso ampliamento degli strumenti di intervento dell’economia reale, che si trattasse della capacità di svolgere da prestatore di ultima istanza o dell’impostazione di un Qe direttamente rivolto a politiche per la crescita, come nell’idea di Roberto Marchesi, politologo e studioso di macroeconomia, che ha ideato una proposta assennata e realistica per un rafforzamento reale del quantitative easing che passi per una sua maggiore focalizzazione sull’economia reale.
Secondo quanto scritto da Marchesi sul Fatto Quotidiano un’azione di discontinuità avrebbe dovuto “partire proprio dalla riforma della Banca Centrale consentendole di intervenire a sostegno delle imprese e contro la disoccupazione con un Qe mirato a questo scopo invece che a quello più generale di sostenere la liquidità monetaria, ora meno necessario ma di cui hanno beneficiato molto di più le banche che le aziende (e per niente i lavoratori). Si potrebbe fare agevolmente con emissioni speciali di titoli (cinquantennali?) degli Stati più colpiti dalla crisi dando così ampio tempo per recuperare. Non sto inventando niente, il Giappone già lo fa”, ha scritto Marchesi.
Anche nel campo della riduzione degli spread tra i titoli di debito, si è assistita all’eterogenesi dei fini. Il Qe si riproponeva di livellare le differenze tra i rendimenti dei vari titoli di Stato per favorire le nazioni “periferiche” e ha, in questo contesto, subito gli attacchi della Germania che, tuttavia, ha beneficiato indirettamente grazie al volano garantito dalla svalutazione dell’euro alle sue esportazioni, come del resto puntualizzava già nel 2015 l’associazione Asimmetrie. E il centro studi fondato dall’euroscettico Alberto Bagnai concorda sul fatto che i Paesi core dell’Eurozona abbiano profittato del Qe con la recente ricerca di tre economisti olandesi, secondo cui le politiche di Draghi hanno dato un vantaggio in termini di rischio agli istituti dei Paesi del Nord dell’Unione.
Mario Draghi sarà sicuramente ricordato come una personalità centrale nell’odierna storia europea. Il Qe ha avuto il pregio di rompere il circolo vizioso del rigore, ma non ha saputo proiettare l’Unione Europea verso una nuova stagione di crescita e sviluppo. E il limite dell’azione della Bce ci ricorda come il vero sviluppo ad ampio raggio potrà venire esclusivamente da un cambio di matrice politica. Capace di irreggimentare l’economia, superando l’illusione di un’autonomia pressoché totale tra le due sfere.