L’approvazione da parte dei due rami del Parlamento italiano della riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) concordata dall’Eurogruppo e che sarà formalizzata dal Consiglio europeo apre un ampio dibattito sull’effettiva possibilità che l’Italia possa in futuro aver la necessità di ricorrere alle linee di credito del “salva-Stati”. Linee che, è bene ricordarlo, non sono quelle del cosiddetto “Mes sanitario” su cui si è discusso in questi mesi, ma quelle del Mes ordinario di cui l’Italia, con 125 miliardi di euro, sottoscrive quasi il 18% del capitale.
La necessità di conformarsi ai parametri macroeconomici e la minore rischiosità del nostro sistema finanziario escludono che l’Italia possa aver bisogno in futuro per i suoi istituti della linea di credito rafforzata per le banche. Che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, è costruita su misura per gli istituti franco-tedeschi.
Diversa è la questione della vigilanza del Mes sul debito pubblico dei Paesi in crisi dell’Eurozona. Nell’ultima riforma su richiesta di Germania e Olanda è stata revisionato in senso più stringente il meccanismo delle Clausole di azione collettiva (Cac) già esistente che, come ricorda il Financial Times, l’Italia non voleva venisse toccato. Le Cac passano a essere single-limb, ovvero richiedono solo che tra i detentori di titoli si crea una precisa maggioranza qualificata, pari al 75% delle quote, per avviare la procedura di ristrutturazione. Ristrutturazione che, molto spesso, fa rima con svalutazione e deprezzamento dei titoli stessi del Paese in crisi. E che aggiunge un nuovo elemento di riflessione sulla bontà di queste clausole.
Si era già detto che anche la stessa ipotesi di un ricorso al Mes avrebbe creato un “effetto stigma” sui Btp e gli altri titoli di Stato nazionali, facendo tracollare la fiducia nella solvibilità del Paese, per almeno due motivi. “In primo luogo”, scrive il blog Econopoly de Il Sole 24 Ore, “esso restituirebbe la percezione che il paese riscontri difficoltà ad accedere ai mercati, prefigurando l’eventualità di una ristrutturazione del debito che avrebbe effetti nefasti sui tassi di interesse. In secondo luogo, una dinamica analoga potrebbe essere innescata dal fatto che i prestiti del Mes fruiranno dello status di creditore privilegiato“. Ora questo effetto rischia di rafforzarsi ed amplificarsi ulteriormente sulla scia di un dato di fatto: l’esistenza di una procedura semplificata per la risoluzione delle crisi debitorie rende automaticamente più facile l’apertura di tali crisi per il messaggio che viene lanciato ai potenziali investitori intenzionati ad acquistare il debito italiano.
Il fatto che, ulteriore aggiunta, nella procedura di indagine sulla ristrutturazione del debito la Commissione europea controlli la sostenibilità del debito e il Mes la capacità di rimborso di uno Stato comportandosi come una banca di fronte a un qualsiasi debitore privato aggiunge ulteriori fattori di criticità. E appare concreto il rischio che l’Europa approvi definitivamente questa riforma senza aver lenito quelle che sono le maggiori criticità per il nostro Paese: la volontà tedesca e olandese di penalizzare le banche che detengono titoli di Stato, ad esempio, colpirebbe direttamente Roma; al contempo, il ritorno in futuro delle clausole sul patto di stabilità aprirebbe a nuove indagini sul debito italiano che potrebbero far prefigurare una crisi. Chi mai, nel settore della finanza istituzionale, potrebbe esporsi con la stessa sicurezza di prima su un debito sottoposto a tante spade di Damocle dopo l’approvazione della riforma?
Inoltre, il fatto che al 31 agosto 2020 il sistema Bankitalia/Bce detenesse 513 miliardi di euro di debito italiano, pari al 24%, rendeva il sistema di banche centrali vicino alla soglia per risultare decisivo in qualsiasi futura procedura di ristrutturazione del debito. Questo potrebbe essere un vantaggio, data la stabilità dei due istituti, ma anche un problema politico, in quanto potenzialmente in grado di svuotare definitivamente la politica della sua capacità nell’agone economico. Appare oramai certo che il governo Conte II abbia firmato un accordo che, nel migliore dei casi può dirsi incompleto e nel peggiore rappresentare un vero e proprio autogol. Ordinaria amministrazione di un’Italia oramai attore di secondo piano in Europa.