Nelle ultime settimane il cambio tra euro e dollaro si è evoluto nella direzione del rafforzamento del primo sul secondo, su livelli che non si vedevano da 22 mesi a questa parte. Nella sola giornata del 29 luglio l’euro ha guadagnato lo 0,34% sul dollaro, e negli ultimi mesi si è passati da 1,14 dollari per euro a 1,20. Nel pieno della crisi pandemica, dunque, si evolve il rapporto valutario tra due dei centri propulsivi dell’economia globale (assieme alla Cina) e cambiano non solo i rapporti di forza ma anche le prospettive. Assistiamo a un cambio di passo notevole anche nel contesto del quadro seguito all’inaugurazione del quantitative easing europeo nel 2015 che, come sottolineato su Osservatorio Globalizzazione, “ha indubbiamente dato un forte impulso al processo di recupero della moneta unica rispetto al dollaro, assicurando all’euro una ritrovata centralità nel commercio internazionale”.
La ragione del potenziamento dell’euro ha radici sia contingenti che di lungo periodo, e impone serie riflessioni sul rapporto tra politica ed economia nel Vecchio Continente e sulle sue relazioni col resto del mondo. Partiamo dall’inizio: sul breve periodo, gli Usa soffrono una recessione-shock (quasi -33% di Pil nel secondo trimestre), l’incapacità di porre freno al dilagare del coronavirus, le incertezze politiche sulla ripresa, il balletto tra Casa Bianca e Congresso e la crescente illiquidità di molti asset, come i Treasury Bond, che hanno visto ridursi i loro rendimenti su tutta la curva.
In secondo luogo, il diluvio di liquidità che ha investito il mondo dopo la crisi ha portato a diversificazioni nell’allocazione degli asset da parte di investitori in cerca di ritorni sempre crescenti. Come fa notare Milano Finanza, “la rapida e sostanziale erosione dei premi di rischio che ha caratterizzato gli ultimi quattro mesi ha reso il valore relativo, ovvero l’attrattività misurata in termini di rischio, liquidità e ritorno atteso, una componente ancora più importante da tenere in considerazione per l’allocazione degli asset in portafoglio”. In altre parole, conviene a un investitore cercare rendimento più in contesti come quello italiano, dove alla solidità relativa dell’economia si aggiungono i fruttiferi dividendi del Btp, che in un’America ove le vacche grasse sono difficili da ritrovare. Le scelte stesse di grossi investitori come Goldman Sachs e BlackRock lo testimoniano.
Vi sono poi, terzo aspetto, ragioni strutturali. Euro e dollaro sono valute che fanno riferimento alla stessa sfera geopolitica occidentale egemonizzata da Washington, ma la moneta dell’Unione Europea è usata spesso da Paesi ostili all’egemonia del biglietto verde come mezzo di transazione alternativo. E se negli ultimi anni, scrive Il Sole 24 Ore, “il dollaro ha consolidato il suo ruolo di àncora – l’’esorbitante privilegio’, secondo la definizione coniata negli anni Sessanta dall’allora ministro delle Finanze francese Valéry Giscard d’Estaing” – visto che i legami con le emissioni della Fed caratterizzano il 62% delle valute dei 195 Paesi del mondo, l’euro, con il 28%, è ben piazzato e assieme allo yuan cinese (in graduale ascesa) copriva una fetta di mercato consistente già prima della crisi. Ora, fa notare Carlo Pelanda su Italia Oggi, il perimetro del biglietto verde è intaccato “dalla frammentazione in blocchi regionali/meganazionali del sistema mondiale”, la cui accelerazione “ridurrebbe la scala della Pax Americana, trasformando l’America da impero mondiale in regno locale, con l’ovvia conseguenza di rimpicciolire il raggio di riferimento del dollaro”.
L’euro si trova nella kafkiana situazione di essere una moneta ambita al di fuori dei suoi confini di validità ma strutturalmente in crisi sul versante interno. Segno dell’incongruenza di una moneta senza strategia politica alle spalle, come dimostrato da diverse situazioni di crisi internazionali (da quella irachena di inizio millennio al caso delle sanzioni alla Russia) in i Paesi europei sono sempre andati al traino del biglietto verde sul campo economico-finanziario. La sua ascesa indebolisce il dollaro ma non contrappone all’indebolimento della posizione geopolitica statunitense un rilancio del ruolo dell’Europa come soggetto autonomo. I dividendi dell’euro sono appannaggio di pochi Paesi mentre altri, come l’Italia, hanno solo da perdere da una moneta unica sopravvalutata in materia di bilancia commerciale e potere d’acquisto.
Usa e Ue, suggerisce Pelanda, dovrebbero porre in essere strategie finanziarie concertate per “inserire l’America in un’alleanza ampia che ripristini la fluidità dei flussi in un mercato almeno semiglobale”, evitando che gli operatori possano, a piacimento, giocare i mercati europei contro quelli Usa e viceversa. Sul campo finanziario si misurerà una delle maggiori prove della (supposta) coesione transatlantica nel contesto della sfida del secolo: quella che vedrà Washington affrontare l’ascesa cinese, che ha nel decollo dello yuan una chiave di volta. Molto dipenderà da quanto andrà in atto dopo la fine della crisi pandemica, per ora molto remota sia sul fronte sanitario che su quello economico: ma creare camere di compensazione per lo scambio di titoli e riserve di valute tra i sistemi europei e nordamericani potrebbe sicuramente impedire che si creino contrapposizioni all’interno di un gruppo di alleati strategici.