La Germania è in affanno, e su queste colonne ultimamente abbiamo raccontato sia il fronte politico della crisi del governo di Angela Merkel, insidiato elettoralmente da Verdi e Afd, che la triplice congiuntura economica che mette a repentaglio la stabilità del sistema tedesco.
In Germania cala la produzione industriale, si mette in discussione il dogma del pareggio di bilancio che mostra tutti i suoi limiti ora che Berlino è sull’orlo della recessione e cala la fiducia degli investitori verso il primo mercato d’Europa. La guerra dei dazi ha messo un freno alla crescita del commercio mondiale e il modello mercantilista della Germania ne risente duramente: priva di reale proiezione geopolitica al di fuori dell’Europa, Berlino ha fatto dell’espansione dei suoi commerci fondati su un’industria manifatturiera tradizionale ad alta intensità occupazionale e a valore aggiunto elevato (automobile, componentistica, farmaceutica) la via maestra su cui calibrare l’interesse nazionale. In nome di questa espansione, tuttavia, la Germania del XXI secolo ha trascurato investimenti infrastrutturali, spese per l’innovazione e piani strategici di lungo periodo, ridotto il welfare sotto i colpi delle riforme Hartz IV, precarizzato il lavoro e conosciuto un duro aumento delle disuguaglianze, specie all’Est divenuto riserva elettorale di Afd. La stagnazione finanziaria conosciuta dal Paese dopo il fallimento della fusione tra Commerzbank e Deutsche Bank e il tracollo di quest’ultima ha contribuito a deprimere gli investimenti e le attività economiche dei privati, che un report di Credit Agricole ha segnalato esser scesi nel 2019 ai minimi dalla Grande Crisi.
Al contempo, la centralità di Berlino in Europa rischia di portare all’esterno i sintomi della crisi tedesca. “La frenata del Pil tedesco, sebbene contenuta, rischia di avere un impatto significativo sul resto della zona euro”, fa notare La Stampa. “Come per esempio sull’Italia, che di Berlino è uno dei maggiori partner commerciali. Qualora per la Germania non vi sia un rimbalzo nel trimestre in corso […] per l’eurozona ci sarebbe un problema in più. Perché, come per contrastare il rallentamento in corso, la Germania dovrebbe fare affidamento solo alla domanda domestica, che è in declino, e non sui partner storici come Italia o Francia, che anche loro stanno lottando per rivitalizzare le rispettive economie”.
L’Italia, in particolare, vede gran parte dell’industria settentrionale inserita nella catena del valore di Berlino, principalmente nel campo della componentistica, della meccatronica e della realizzazione di macchinari di supporto alla produzione. L’attuale contesto sfavorevole pone in evidenza la grande problematica rappresentata dal rapporto osmotico italo-tedesco in campo commerciale, che ha nella Germania, nella gran parte dei casi, la centrale finale di realizzazione del prodotto oggetto dell’esportazione e della parte principale di valore aggiunto.
“Questo processo”, ha scritto Limes, “ha provocato la trasformazione della Germania da Paese esportatore a piattaforma industriale. Ovvero centro di distribuzione di fasi del processo i cui risultati vengono convogliati nel Paese centrale la cui industria è in gran parte dedicata all’assemblaggio. La catena del valore dell’Europa tedesca include buona parte dell’Europa orientale ma anche l’Italia settentrionale, che complice l’effetto delle politiche di distruzione della domanda interna avviate da Mario Monti negli ultimi anni ha fondato la sua ripresa industriale proprio sull’integrazione nello spazio economico tedesco”. L’Italia e il gruppo di Visegrad, infatti, vivono una relazione con Berlino pari a quella di un satellite attorno a un pianeta. L’orbita gravitazionale attorno alla Germania mette questi Paesi in condizione di dover subire l’impatto con le periodiche crisi dell’industria teutonica e, di conseguenza, scontare le debolezze di non poter controllare la testa dell’apparato produttivo.
Miseria e debolezza di un’Europa in cui la Germania, ferrea cultrice delle regole di bilancio, rispetta le norme in maniera selettiva, violando da tempo il limite dell’avanzo commerciale (8% del Pil) e frenando, con l’austerità e la deflazione interne, qualsiasi politica dal lato della domanda al suo interno. I Paesi del resto del continente rischiano di pagare, amplificata, la crisi tedesca nei loro settori industriali.