L’orizzonte temporale del piano Next Generation Eu non è (non solo) il 2027, anno di esaurimento dell’attuale quadro finanziario pluriennale dell’Unione Europea in cui è incardinato il piano che comprende il Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza (il “Recovery Fund” propriamente detto) da 672,5 miliardi di euro, il piano ReactEu per investimenti strategici da 47,5 miliardi e altre misure che portano ai fatidici 750 miliardi di euro di cui spesso si parla. In un certo senso è il 2058, anno in cui l’Unione, stando agli accordi previsti da luglio 2020 in avanti, punta a completare il rimborso dei finanziamenti che saranno procacciati sui mercati per moltiplicare le risorse messe a disposizione dai Paesi membri per fornire a NextGen la sua potenza di fuoco.
Un piano degli Stati per gli Stati
Il debito comune europeo è debito degli Stati per gli Stati. Questo fa comprendere le motivazioni che hanno portato alla costruzione di un piano di rilancio sicuramente notevole ma che per le tempistiche della messa in moto e le risorse stanziate non ha nulla a che vedere con progetti quali quelli che negli Stati Uniti le amministrazioni di Donald Trump e Joe Biden hanno promosso per rilanciare l’economia della superpotenza a stelle e strisce. In perenne ricerca di svolte storiche, espressione abusata negli ultimi anni, l’Unione europea, per magnanima e utilitaristica volontà della Germania di Angela Merkel colpita dalla crisi del Covid-19, ha allentato a partire da marzo 2020 le misure rigoriste che ne costruiscono l’ordinamento. Ma NextGen non è l’embrione di una politica fiscale comune, né, come ha ricordato il professor Tommaso Monacelli su La Voce, un “pasto gratis”. Rappresenta una sfida politica ed economica di portata pluridecennale. Che in un certo senso si concluderà solo quando gli ultimi prestiti saranno stati definitivamente rimborsati.
Sfide pluridecennali
L’Unione ha fissato un orizzonte estremamente remoto: con l’1 gennaio 2028 si aprirà la nuova fase di bilancio pluriennale Ue e da allora inizieranno le procedure di rimborso che vedranno sia un contributo delle nuove risorse proprie che l’Unione si darà (ovvero dei proventi legati all’imposizione su attività economiche e sociali dei cittadini e dei Paesi membri) sia un impatto diretto sul bilancio pluriennale stesso. L’obiettivo sistemico dell’Ue è un aumento dello 0,6% annuo del gettito fiscale che attualmente va nelle casse di Bruxelles, che ha oggi come massimale possibile l’1,4% del Pil del Vecchio Continente.
Le proposte di nuove tasse non sono in tal senso state formalizzate con lo sviluppo di NextGen e andranno in parallelo con l’erogazione delle prime risorse ai Paesi che presenteranno e vedranno approvati i loro piani nazionali che, non dimentichiamolo, sarà per il 10% garantito come anticipo ai governi e per il restante 90% condizionato al raggiungimento degli obiettivi economici stabiliti in partenza tra esecutivi e Commissione Ue sulle tempistiche dei progetti o sulle riforme richieste in contropartita.
Le nuove risorse per l’erario europeo
L’Ue si è impegnata a presentare entro il 2021 tre proposte di tassazione, rispettivamente sul digitale, sulle quote di emissione e sugli ingressi di prodotti provenienti da Paesi che praticano “dumping” ambientale. Quest’ultima sta prendendo la forma della Carbon Border Tax su cui Partito popolare europeo, Verdi e Partito socialista europeo stanno trovando la quadra all’Europarlamento. Le altre due sono ancora in fase di negoziazione politica, con l’imposta sul digitale che è oggetto del braccio di ferro tra Europa e Stati Uniti e quella sulle emissioni interne che dovrebbe attestarsi sul 20% dei proventi delle aste del sistema Ue di scambio delle quote. Inoltre, entro il 2024 dovranno essere presentate proposte di imposizione legate alle transazioni finanziarie e la ricerca di una base imponibile comune per le società. Secondo quanto segnalato da Reuters, altri tributi di questo tipo potrebbero includere una tassa sulla plastica in base al raggiungimento di precise quote di riciclo da parte dei Paesi membri.
L’obiettivo dell’Unione europea è di alzare di circa 22 miliardi di euro l’anno le entrate con le nuove misure e dunque, proiettando il tutto in un’orizzonte pluridecennale, permettere che la ripresa economica del Vecchio Continente e la conseguente leva fiscale garantita ripaghino sul campo buona parte dei finanziamenti necessari per promuovere il piano Next Generation Eu. Questo aumenta dunque la pressione affinché il progetto abbia successo e non è da sottovalutare quel che tutto ciò può significare per l’Italia, unico Paese dell’Unione che si trova al contempo tra i contributori netti al bilancio europeo, tra i beneficiari netti di NextGen e tra gli Stati (4 complessivamente) che usufruiranno sia della componente a fondo perduto che dei prestiti del Recovery Fund.
L’Italia chiave di volta per NextGen
Roma si trova nella complessa e difficile situazione di dover, con la sua crescita, garantire una piena efficacia del piano. Nella consapevolezza che da solo NextGen non può essere un game-changer e che servirà sovrapporlo all’utilizzo strategico del debito pubblico e dei progetti di medio-lungo periodo. Il governo Draghi dovrà dunque impostare nel migliore dei modi le linee guida operative di un piano che condizionerà la nostra azione nel prossimo decennio e anche oltre. Per abbattere i possibili costi sistemici che la mancata crescita imporrebbe in caso di ampio scoperto nel bilancio Ue nel 2027. Per recuperare posizione in Europa a livello sistemico. Per ovviare alla cronica incapacità dell’amministrazione italiana, tremendamente sottodimensionata, di gestire appieno i fondi comunitari (nel periodo 2014-2020 l’Italia ha ottenuto 44,8 miliardi di fondi strutturali e ne ha spesi non più del 38%: peggio di noi ha fatto solo la Croazia). Per coniugare pragmatismo e visione nei progetti più importanti che animano il piano, come la transizione ecologica e il digitale. Vietato fallire, dunque.