Mario Draghi la prossima settimana sarà atteso da una delle prove del nove per il suo esecutivo: la presentazione a Camera e Senato della bozza italiana per il Recovery Fund, a pochi giorni dalla scadenza del 30 aprile fissata dalla Commissione per la ricezione della bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) la cui riscrittura è stata una delle motivazioni che hanno garantito il suo avvicendamento a Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.

A che punto sono i lavori

Dalla carenza di dettagli su investimenti e occupazione alla vaghezza di diversi progetti il Recovery presentato informalmente dal governo Conte II a Bruxelles scontava diversi limiti che esponenti europei come Valdis Dombrovskis avevano, con eccessiva durezza, censurato. Da Roberto Cingolani a Vittorio Colao, passando per Enrico Giovannini, i ministri chiamati al coordinamento delle aree chiave del Recovery hanno presentato nelle scorse settimane alle Commissioni parlamentari le linee guida per le parti loro assegnate sotto il coordinamento del Mef di Daniele Franco.

Ma nei giorni in cui Draghi sta terminando l’incontro coi partiti e si prepara a ricevere le parti sociali circola la voce che Roma possa “bucare” la scadenza del 30 aprile. E Italia Oggi sottolinea che a questo potrebbe aggiungersi una macchia di non poco conto: i bene informati che si muovono tra i palazzi del potere italiani ed europei sussurrano che “Bruxelles non sarebbe nemmeno soddisfatta di alcuni aspetti delle bozze circolate finora”, sebbene da Palazzo Chigi nessuna dichiarazione in merito sia ancora uscita.

I nodi su cui lavora Draghi

Draghi si trova di fronte a una sfida che complica il suo rebus, articolata in quattro punti: dover distribuire le risorse sulla scia di pressioni politiche legate a una coalizione molto più ampia e diversificata di quella del Conte II; garantire il coordinamento tra i ministri tecnici chiamati a blindare il piano e le forze presenti in Parlamento; avviare speditamente le riforme chieste dall’Ue in contropartita; garantire coperture sostenibili sia sul fronte dell’assegnazione vincolata dei fondi (37% transizione ecologica, 20% digitale) che su quello della localizzazione geografica dei piani.

Il coordinamento tra partiti, riforme e governo è già garantito permettendo a diversi esponenti politici di affiancare i ministri indipendenti sul fronte dei piani industriali (Giancarlo Giorgetti), delle riforme (Renato Brunetta) o della negoziazione con le parti sociali (Andrea Orlando); più complesso sarà garantire uniformità al processo applicativo e risolvere le difformità territoriali. Se progetti come quelli dei ministri Cingolani (Transizione ecologica) e Colao (digitale) possono garantire uniformità e applicazioni trasversali tra varie aree del Paese, Giovannini chiamato a governare le Infrastrutture si trova di fronte al rebus di evitare eccessivi squilibri. Mara Carfagna, ministro del Sud, ha proposto di destinare al Mezzogiorno il 40% delle risorse del Recovery e sarà difficile trovare la quadra tra lo stanziamento inizialmente previsto (34%), le richieste dei territori e la fame che il Sud ha soprattutto nel comparto infrastrutturale.

Perché il ritardo potrebbe non essere un problema

Italia Oggi paventa l’idea che un eventuale “buco” del Recovery nelle tempistiche possa apparire come un flop del governo Draghi. Il premier si trova però di fronte a uno scenario fortemente meno rigido di quello su cui Conte doveva, al di là dei suoi limiti, regolarsi. Non rispettare la scadenza del 30 aprile, ora come ora, non sarebbe un grandissimo danno, dato che non scatenerebbe una reazione da Bruxelles, men che meno procedure varie per quella che è una soft deadline. Dieci Paesi devono ancora ratificare il Recovery, uno (l’Olanda) si trova nelle negoziazioni per il nuovo governo, Roma ha cambiato esecutivo da due mesi e mezzo, fino ad oggi c’era la mina del giudizio della Corte costituzionale tedesca da disinnescare. Mancano inoltre certezze sulle nuove misure europee di auto-finanziamento (digital tax, carbon tax, tassa sulle transazioni finanziarie).

“Le aspettative europee più ottimistiche puntavano a ottenere il disco verde dagli Stati entro la stessa scadenza di presentazione dei piani a fine aprile, anche se poi seguirà una specie di ‘interregno’ di due mesi, il tempo che la Commissione Ue avrà a disposizione per l’esame dei progetti”, nota l’Huffington Post. L’Italia non deve quindi valutare eventuali ritardi rispetto a Paesi come Spagna, Grecia, Francia come decisivi. La negoziazione politica dovrà produrre frutti chiari per permettere a Roma la vittoria nella sfida chiave: l’applicazione concreta dei progetti, la definizione di road-map chiare e processi gestionali volti a garantire tempi certi per l’utilizzo dei fondi Ue. La vera sfida che Mario Draghi dovrà saper vincere.