Nel contesto dell’analisi del debito pubblico italiano, un fattore di criticità molto spesso sottovalutato da analisti e commentatori è lo squilibrio tra la quota di titoli in mano a risparmiatori e investitori nazionali e la percentuale detenuta da operatori stranieri.
In Italia, scrive Risparmiamocelo, “sono gli investitori non-residenti in Italia a possedere, in termini relativi, la fetta più consistente del nostro debito pubblico. Oggi gli investitori stranieri possiedono il 35% (738 miliardi di euro) del debito italiano. Le banche detengono il 26% del debito pubblico italiano mentre altre istituzioni finanziarie, come assicurazioni e fondi, ne hanno in mano il 18%”. Una maggiore quota assegnata a investitori stranieri sposta fuori dall’Italia le dinamiche relative alla sua evoluzione e al suo sviluppo effettivo, impattando verticalmente sulla stabilità, il rendimento e parametri fortemente dipendenti da dinamiche politico-economiche come lo spread.
Oltre alla natura “straniera” di un debito pubblico denominato in euro su cui Roma non può esercitare controlli sul tasso di interesse, deciso dalle scelte della Banca centrale europea che al tempo stesso non ha i poteri per assicurare i titoli degli Stati dell’Unione, la presenza di una quota ingente di debito nei portafogli stranieri fa la differenza tra la sostenibilità del debito italiano pari al 130% del Pil e quello giapponese, superiore al 200% della produzione economica nipponica.
Le banche francesi fanno la parte del leone
Tra i 738 miliardi di euro in mano a investitori stranieri, la fetta maggiore è controllata dalle banche europee. Come riporta True Numbers, “Le principali banche europee possiedono 425 miliardi di euro del debito pubblico italiano. Questo ammonta oggi al 131% del nostro Pil, circa 2.365 miliardi di euro (ma diventeranno 3mila miliardi nel 2024, secondo le stime del Fondo monetario internazionale). Per fare un confronto, le banche italiane hanno in mano circa 380 miliardi del nostro debito, mentre la Banca d’Italia ne detiene 387, direttamente o tramite la Banca Centrale Europea”.
425 miliardi di euro sono circa il 17% del nostro debito pubblico: e 285 di questi sono imputabili alle sole istituzioni finanziarie francesi. Un’accumulazione che è il frutto di una continua campagna di penetrazione della finanza francese nel nostro Paese a partire dagli Anni Novanta, intensificatasi con la svolta del nuovo secolo. Come scritto su Atlante, “la Francia è una potenza finanziaria di altro tenore rispetto all’Italia, in particolare per la capacità di usare le banche d’affari per promuovere la crescita dimensionale di grandi gruppi” quali i principali intenti a detenere quote consistenti del debito italiano, ovvero Bnp Paribas (143,2 miliardi) e Credit Agricole (97,2 miliardi), che anche prese singolarmente battono ampiamente il totale del debito controllato dall’intero complesso di istituzioni tedesche, pari a 58,7 miliardi.
Due gruppi radicati nel nostro Paese
Totali superiori anche a quelli che registrano Unicredit e Intesa San Paolo (66,3 e 47,3 miliardi), terza e quarta detentrice di debito italiano tra le banche del Vecchio Continente, seguite dalla pericolante Deutsche Bank (30 miliardi) e dal gruppo belga Dexia (23,1), guarda caso a forte partecipazione francese.
Da questa presenza deriva un potere di influenza e condizionamento nell’economia e nella politica nazionale che si riflette nella forza del “partito francese” in Italia, indagato da Aldo Giannuli in Classe dirigente e di cui il recente affaire Gozi dimostra la vitalità, e nell’ampliamento della penetrazione transalpina nel capitale industriale italiano: da Edison a Bulgari, da Bottega Veneta ai produttori di bici Pinarello, passando per Telecom, secondo uno studio di Kpmg datato 2017, si tratta di oltre 53 miliardi di euro di beni e partecipazioni finiti sotto la bandiera francese.
Credit Agricole e Bnp Paribas rappresentano la forza del capitale francese in Italia: Bnp ha assorbito nel 2006 la storica Banca Nazionale del Lavoro (Bnl), che oggi assiste 2,5 milioni di privati e oltre 130.000 aziende e professionisti, mentre Credit Agricole ha portato avanti una strategia di lungo termine, fagocitando diversi istituti locali di media e piccola grandezza. Dal 2007, anno dell’acquisto di Cariparma e FriulAdria dopo il rifiuto dell’antitrust di incorporarle in Intesa San Paolo, il gruppo di casse rurali francesi ha incorporato, nell’ordine, CariSpezia (2010), Cassa di Risparmio di Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena e Cassa di Risparmio di San Miniato (2017).
Non a caso, da questa presenza pervasiva è seguita una strategia d’inserimento nel mercato del debito pubblico italiano che ha visto le due banche acquisire un’influenza sempre più nitida e crescente. Al punto tale da poter essere considerate autonomamente due stakeholder di primo livello di Roma e due attori dall’influenza decisiva sulla fiducia nel suo debito pubblico. Quanto questo cozzi con la necessità italiana di una piena sovranità sulla gestione della sua economia, è evidente.