La notizia diffusa dal quotidiano venezuelano El Nacional (e riportata dall’agenzia di stampa russa Tass) potrebbe avere ripercussioni molto importanti. E riguarda la possibilità che il governo venezuelano ceda il controllo della compagnia petrolifera di Stato Pdvsa a Rosneft, colosso petrolifero russo controllata in maggioranza dal Cremlino. El Nacional citerebbe fonti all’interno del settore e definirebbe la decisione come un modo per ottenere la cancellazione del debito nei confronti della Russia – solo il debito di Pdvsa con Rosneft ammonterebbe a 1,1 miliardi di dollari – in cambio del passaggio di proprietà. Ipotesi che è stata smentita dal consigliere di Nicolas Maduro, Diosdado Cabello, il quale ha definito la voce riportata da El Nacional una falsità presso l’agenzia di stampa russa Ria Novosti.
Tutto finito, dunque? In realtà la situazione potrebbe essere più complessa. Maduro ha infatti già compiuto delle azioni molto rilevanti per definire i rapporti di forza all’interno del settore petrolifero venezuelano, come il suo recente viaggio in Russia ed il trasferimento della sede europea di Pdvsa da Lisbona a Mosca deciso in concomitanza. Il trasferimento è stato definito dal ministro del Petrolio venezuelano Manuel Quevedo come parte della strategia di business della compagnia di Stato, ora orientata verso i mercati di Russia e Cina. I rapporti fra Pdvsa e Russia, dunque, sono già in fase di consolidamento e sebbene non dovesse verificarsi il passaggio di proprietà i russi giocheranno comunque un ruolo fondamentale all’interno della compagnia, anche solo per l’ingente credito che detengono nei suoi confronti precedentemente menzionato.
D’altra parte, il famoso passaggio è difficile da attuare materialmente in quanto, secondo la legge venezuelana, richiederebbe l’approvazione dell’Assemblea Nazionale attualmente sotto il controllo dell’opposizione, come la stessa agenzia Tass ha riportato nel suo comunicato. Rilanciando questa notizia sembra più che il Governo russo, proprietario dell’agenzia Tass stessa, abbia voluto diffondere un’informazione che avrebbe potuto destare la curiosità e lo stupore degli osservatori e dei commentatori, soprattutto su internet, e guardando la quantità di articoli prodotti sul tema si direbbe che l’esperimento sia andato a buon fine. Tuttavia gli attori coinvolti in questa trattativa, russi in primis, sanno bene di non potersi esporre più di tanto e che il contesto venezuelano sia particolarmente intricato anche all’interno di Pdvsa, la quale ha un consiglio di amministrazione parallelo eletto dall’opposizione autorizzato dall’Assemblea Nazionale stessa a discutere il debito estero della compagnia.
È però praticamente certo che la Russia abbia interesse a consolidare il proprio ruolo di operatore nel settore petrolifero venezuelano, il quale detiene la maggior quantità di riserve di petrolio provate del mondo (dato EIA, 2018). Avere immense riserve di petrolio, però, non è sufficiente: occorre anche la capacità di raffinare il greggio e renderlo un prodotto utilizzabile, o al limite accedere a servizi di raffinazione in altri Paesi. La capacità di raffinazione del settore petrolifero venezuelano è ridotta anche per complicità delle sanzioni, con un dato del 2018 che mostrava una capacità reale – 626mila barili al giorno – minore della metà della sua capacità nominale, stimata nel 2017 in 1,3 milioni di barili al giorno (dati Eia). La Russia, al contrario, è ancora oggi un attore di primo livello nel campo della raffinazione, con una capacità di circa 6,5 milioni di barili al giorno – circa 6 volte la capacità nominale venezuelana – ed avendo il Venezuela perso il suo principale partner raffinatore, ovvero gli Stati Uniti (EIA), la Russia potrebbe gradualmente sostituirsi come raffinatore del greggio proveniente da Caracas.
Questi elementi potrebbero portare, nel medio periodo, al consolidamento della Russia come Paese produttore e raffinatore di greggio nel mercato petrolifero globale. Una volta che la Russia avrà provveduto a raffinare il nuovo petrolio proveniente dal Venezuela dovrà, per forza di cose, trovare un mercato per quest’ultimo e sarebbe interessante capire dove verrà diretta questa ulteriore disponibilità di prodotti energetici al di là del Venezuela, il quale probabilmente riceverà in cambio una parte sostanziosa di quei prodotti raffinati.
Gli scenari possibili sono sostanzialmente due. L’Unione europea importa grandi quantità di gas naturale e petrolio – sia non raffinato che prodotti petroliferi – dalla Russia. Eurostat fornisce tutti i dati relativi alle dinamiche del mercato petrolifero dell’Unione: in particolare, stando ai dati l’Ue ha importato per il 2017 565,7 milioni di tonnellate in petrolio non raffinato, con la Russia come primo fornitore – 163,1 milioni di tonnellate –, ben più che l’Arabia Saudita – 35,6 milioni di tonnellate –. Il rapporto fra importazioni nette e consumo energetico interno segna una dipendenza dalle importazioni di petrolio dell’UE dell’86,7% (UE a 28, dati del 2017).
Tuttavia, un dato interessante è anche l’andamento delle importazioni di petrolio non raffinato dalla Russia dal 2000 al 2017: dopo una crescita sensibile fino al 2004 e al netto di una leggera flessione fra il 2013 ed il 2016, le importazioni dalla Russia si sono mantenute stabili e non hanno segnato una crescita sostanziale del volume. Sembrerebbe dunque che il petrolio, per quanto fondamentale all’interno dell’economia dell’Ue, non venga richiesto in quantità crescenti, segnando una stabilità della domanda che rende il mercato europeo stabile e con prospettive di crescita limitate.
Verrebbe dunque da chiedersi come la Russia potrà trarre vantaggio dal controllo delle riserve petrolifere venezuelane. La risposta potrebbe venire da Oriente, con le economie asiatiche che si candidano a nuovo mercato d’elezione per il petrolio venduto da Mosca: il consumo energetico primario della regione Asia-Pacifico corrisponde attualmente a più del 40% di quello mondiale e secondo l’Energy Outlook del 2018 di Bp l’Asia sarà la regione che contribuirà maggiormente all’aumento di circa un terzo della domanda energetica mondiale per il 2040.
L’Asia ha bisogno di energia e la paura di non riceverne abbastanza è un driver sempre più forte per la loro politica estera ed economica: in particolare, la regione è dipendente dalla fornitura di petrolio dal Medi oriente, una condizione che diventa sempre più sofferta con l’intensificarsi della crisi fra Iran e Arabia Saudita. Questo spinge Paesi come Cina o India a ricercare fornitori alternativi qualora i ritardi comincino ad accumularsi e a perdurare nel tempo ed essendo proprio Cina ed India rispettivamente il secondo ed il terzo Paese per consumo di petrolio al mondo è chiaro che questi saranno particolarmente avidi di oro nero in caso di crisi.
Per capire quanto il mercato petrolifero asiatico sia più promettente di quello europeo basta vedere la differenza fra il consumo annuale cinese – 12.799.000 barili al giorno (dati di Ceoworld, 2017) contro 4,82 barili di petrolio al giorno prodotti (dati Eia, 2018) – con quelli della Germania, primo Paese europeo che troviamo nella stessa classifica – più precisamente, al nono posto con 2 447 000 barili al giorno, poco meno di un quinto del consumo cinese –. Circa cinque Germanie sarebbero dunque necessarie per fare la domanda giornaliera di un solo Paese asiatico, mentre l’India viaggia su un più modesto consumo giornaliero di 4 690 000 di barili, poco meno del doppio della prima economia europea. Inoltre, fra i primi dieci Paesi per consumo petrolifero, 4 sono asiatici ed insieme totalizzano il 24,7% del consumo mondiale.
In conclusione, la Russia avrà con molta probabilità un ruolo sempre maggiore come raffinatore del petrolio venezuelano e potrà contare su questa ulteriore disponibilità per guadagnare reddito dalle esportazioni nel mercato asiatico, meno interessato rispetto a quello europeo a ridurre l’utilizzo di combustibili fossili che non siano carbone e più lanciato verso uno sviluppo economico estremamente energivoro. Occorre però tenere a mente che tutti gli attori coinvolti hanno interesse a giocare con la diffusione di informazioni per creare emozioni fra gli osservatori, i quali spesso dimenticano la complessità dello scenario preso in considerazione e rischiano di vedere come un dato di fatto un processo che è tuttora in corso. La cautela, quando si parla di Russia come di America Latina, è decisamente d’obbligo.