Iveco non sarà cinese: il ritiro dell’offerta presentata dal gruppo Faw a Case New Holland, società del gruppo Exor, ha fatto tramontare la prospettiva di un passaggio sotto il controllo del gruppo della Repubblica Popolare dello storico marchio italiano produttore di veicoli industriali e per il trasporto di merci, che era finito nel mirino delle autorità italiane sia per la presenza di un suo comparto dedicato alla Difesa sia per le possibili ricadute occupazionali.
L’impatto del caso Iveco sulla politica industriale
Prescindendo dalle motivazioni politiche che possono o meno aver influito sullo stop a una trattativa che la famiglia Agnelli-Elkann riteneva fondamentale per la ristrutturazione aziendale e che Faw ha giustificato con la discrepanza tra domanda e offerta nel prezzo, l’importanza dello stop al passaggio di Iveco in mani cinesi sta anche nella necessità di rimettere il centro del discorso sulla questione della politica industriale come volano del rilancio del sistema-Paese.
La recente crisi pandemica ha riportato in primo piano la tematica prioritaria del legame tra politiche industriali e valorizzazione su scala nazionale dei settori strategici, già fatto proprio da diversi Stati nel quadro nell’economia globalizzata per l’ampliamento della competitività tra sistemi-Paese, ulteriormente rinsaldato dall’emergenza sanitaria. Questa ha aggiunto campi come il biomedicale e l’alimentare al novero di settori che gli Stati sono chiamati a presidiare attivamente (elettronica, difesa, aerospazio, farmaceutica, telecomunicazioni) sia sul fronte produttivo che su quello industriale e richiamato alla necessità di programmare attentamente l’accelerazione tecnologica e il controllo delle catene del valore di questi settori. Iveco tutela un settore fondamentale per la logistica e il commercio, ha una quota di occupazione specializzata che, con l’indotto, supera le 20mila unità, promuove investimenti in mobilità sostenibile e idrogeno. Non si vedevano i motivi per cui gli Agnelli-Elkann avrebbero dovuto lasciarla passare in qualsiasi altra mano al di fuori dall’arida contabilità finanziaria.
Perché le Pmi finisco nel mirino
Il futuro della crisi economica legata alla pandemia rischia di lasciare in eredità un’ampia gamma di aziende sottocapitalizzate, fragili sul profilo finanziario, indebolite in campo operativo che, senza l’attivazione di filiere ben precise sul piano industriale da parte degli attori pubblici (che presto riceveranno i fondi del Recovery Fund) rischiano di restare esposte a scalate straniere di varia provenienza. Appare quasi un bene assistere a questi eventi quando riguardano colossi ben riconoscibili come Iveco. In larga parte, tuttavia, a esser prese di mira sono Pmi ad alta intensità di competenze, fortemente innovative, ma sottocapitalizzate o non legate a un contesto di filiera.
Come riporta un’analisi realizzata da Kpmg per Industria Italiana, “nel decennio 2010-2019, il controvalore delle acquisizioni di industrie italiane dall’estero (40 miliardi), infatti è di gran lunga superiore alla somma delle acquisizioni di italiani all’estero (16,6 miliardi) e di italiani fra italiani (10,4 miliardi)”. Ben sei delle prime dieci operazioni in classifica “sono grandi acquisizioni di soggetti importanti da parte di multinazionali straniere: Pirelli da ChemChina (China National Chemical Corporation), Magneti Marelli da Calsonic Kansei Corporation (società giapponese attiva del settore automobilistico controllata dal fondo americano KKR), Avio spa da General Electric, Rhiag da Lkw, Ansaldo Ferroviaria da Hitachi Ltd”. Logico dunque pensare che queste tendenze possano acuirsi o addirittura moltiplicarsi quando la crisi del Covid lascerà i suoi strascichi in termini di indebolimento strutturale delle imprese o qualora le necessità operative del governo italiano dovessero focalizzarsi su una nicchia di settori particolarmente esposti. Nella consapevolezza che misure come il golden power possano attutire l’appetibilità di molti gioielli nazionali ma non sono una carta giocabile in qualsiasi momento senza rilevare debolezza.
Una strategia per difendere le filiere europee
L’eurodeputato pavese della Lega Angelo Ciocca ha a tal proposito dichiarato che il caso Iveco può fornire un primo banco di prova per testare la possibilità di cooperazione tra autorità europee e Stati nazionali nel definire il perimetro della protezione delle aziende strategiche attraverso il rilancio industriale: “la strada da fare è ancora molta e l’Europa dovrà vigilare e dare supporto al governo per garantire che l’Italia non perda un marchio storico”, ha scritto Ciocca in una nota, aggiungendo che l’Unione dovrebbe pensare a interventi industriali concordati con lo Stato per “evitare che le aziende italiane finiscano in mano di concorrenti stranieri, ma che queste siano in condizioni di poter preparare piani industriali adeguati al momento difficile che ogni attività sta vivendo”. In sostanza rafforzando la linea cara a Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo Economico, e al commissario europeo all’Industria Thierry Breton sulle filiere industriali comuni europee come volano di ripresa e crescita condivise.
La logica di filiera va pensata come strumento efficace anche per ottimizzare le decisioni in materia di politica industriale in connessione con i progetti europei e con le priorità nazionali italiane. In Italia esistono le strutture in grado di farsi carico a livello dettagliato di queste politiche: Cdp Equity può fornire ossigeno vitale alle piccole e medie imprese, Invitalia ha recentemente rilanciato la presenza dello Stato nell’ex Ilva e con 10 milioni assieme ad Investcorp, che ha messo sul piatto 7 milioni, ha salvato un marchio storico come Corneliani. Iveco può beneficiare dei progetti di mobilità sostenibile e dai piani industriali che saranno legati al Recovery Fund, mentre Patrimonio Destinato, il fondo da 44 miliardi che Cdp sta strutturando, aiuterà altre imprese con fatturato sopra i 50 milioni ad acquisire nuovamente competitvità.
La competizione sistemica tra Paesi e settori renderà negli anni a venire sempre più necessaria la supervisione politica e strategica di uno Stato in grado di dare le linee d’indirizzo e i finanziamenti necessari all’innovazione, alla ricerca e ai cambi di paradigma produttivi. Permettendo alla politica industriale di rompere il tetto di cristallo che per anni l’ha intrappolata a una logica meramente emergenziale (che fare della Whripool e dell’Embraco? Che futuro per Alitalia? Come comportarsi di fronte all’offshoring produttivo?). Ora la sfida sarà nell’individuazione delle domande, ovvero delle linee di tendenza su cui si muove il potere economico e la competizione su scala globale e la comprensione dei nuovi settori di riferimento per lo sviluppo e l’industria del futuro su scala europea e globale. Per permettere che le direttrici del progresso passino anche per la penisola italiana e evitare di renderla terra di conquista.