All’indomani della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, avvenuta lo scorso marzo dopo un lungo e difficoltoso negoziato, portato avanti nell’ombra grazie alla silenziosa ma decisiva regia della Cina, la sensazione era che i cinesi ambissero a diventare pesi massimi della diplomazia in Medio Oriente. L’attuale crisi tra Israele e Hamas, con Teheran alla finestra e altri Paesi arabi pronti ad intervenire più o meno direttamente in un ipotetico conflitto regionale, rischia però di frantumare il desiderio di Pechino.
Fino a non molti mesi fa, il Dragone spiegava di esser pronto a svolgere un ruolo costruttivo nella gestione delle problematiche nei “punti caldi” globali, tanto più in una regione, come quella mediorientale, che aveva inghiottito i precedenti tentativi dei rivali statunitensi di fare altrettanto. Insomma, il modus operandi cinese, costituito da un elevato pragmatismo, avrebbe dovuto riuscire laddove quello liberaldemocratico di Washington aveva fallito.
Le tensioni israelo-palestinesi hanno tuttavia risvegliato i diplomatici cinesi dal loro apparente sogno. Già, perché alla Cina adesso è stato chiesto di intervenire per placare gli animi – soprattutto quello dell’Iran – ma il gigante asiatico si trova in una posizione difficile. Il Dragone, infatti, in passato ha offerto uno storico sostegno ai palestinesi e alla loro causa, ma oggi fa affari d’oro con Israele. Schierarsi a favore dei primi implicherebbe alimentare la rivalità con gli Usa e con il blocco occidentale; farlo con gli israeliani, invece, di inimicarsi i governi arabi e il cosiddetto Sud del mondo.
Il problema economico
Restare a metà del guado, ad osservare da lontano spendendo parole di circostanza, potrebbe tuttavia essere una prospettiva ancora peggiore per la Cina. A parole, Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri, ha spiegato che “la Cina è fortemente preoccupata per la continua escalation del conflitto israelo-palestinese ed esorta tutte le parti interessate a cessare immediatamente il fuoco e a fermare i combattimenti”, e che è “disposta a mantenere la comunicazione con tutte le parti e a compiere sforzi incessanti per la pace e la stabilità in Medio Oriente”.
Nel frattempo, Pechino ha spedito nella regione l’inviato speciale per il Medio Oriente, Zhai Jun, nel tentativo di mediare attivamente tra le parti. Il punto è che la Cina è di gran lunga il più grande importatore di petrolio dall’Arabia Saudita e dall’Iran, e questo evidenzia il rischio che correrebbe la potenza asiatica nel caso in cui la guerra tra Israele e Gaza dovesse ampliarsi.
I numeri riportati dal Wall Street Journal sottolineano come metà delle importazioni di petrolio cinesi – e poco più di un terzo di tutto il petrolio bruciato oltre la Muraglia – provenga dal Golfo Persico.
La trappola del Medio Oriente
Nello specifico, la Cina, seconda economia più grande del mondo, acquista circa il 72% del suo petrolio dal Medio Oriente (mentre era autosufficiente dal punto di vista petrolifero fino agli inizi degli anni Novanta). Altro aspetto rilevante: se i terremoti geopolitici nella regione spaventano Pechino, lo stesso non può dirsi per Washington, diventato ormai un esportatore netto grazie al boom del fracking.
Considerando che il presidente cinese Xi Jinping ha inserito il tema della sicurezza energetica in cima all’agenda delle priorità nazionali, è lecito supporre che le tensioni tra Israele e Hamas non lo lascino dormire serenamente. “L’approvvigionamento energetico e la sicurezza sono cruciali per lo sviluppo nazionale e il sostentamento delle persone, e sono una questione molto importante per il Paese che non può essere ignorata in nessun momento”, aveva non a caso affermato Xi lo scorso luglio.
Certo, Pechino ha investito fiumi di soldi nell’economia green e nel settore delle auto elettriche, ma lo Stato cinese resta il leader mondiale nella produzione di prodotti petrolchimici, ricavati dal petrolio e dal gas naturale. Intanto, in questo preciso istante, milioni di barili di olio nero provenienti dal Medio Oriente saranno appena arrivati in Cina.