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Economia /

Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile il governo italiano ha più volte calciato la palla nella metacampo delle istituzioni europee e dei “falchi” del rigore chiedendo un’azione comunitaria più incisiva e rifiutando la prospettiva di un pacchetto anticrisi fondato esclusivamente sul Mes e le strutture già esistenti nell’architettura dell’Unione.

Il governo di Giuseppe Conte ha fatto bene, due settimane fa, a rifiutare un compromesso al ribasso come quello partorito dal Consiglio Europeo. Non si capisce però perchè, nelle giornate successive, il governo e i suoi esponenti nelle istituzioni europee abbiano rinunciato a esercitare il doveroso spirito d’iniziativa necessario per portare avanti una linea coerente e pragmatica.

Il mantra di Conte era “Mes no, Eurobond sì”. L’esito dell’Eurogruppo è stato, invece: “Mes sì, Eurbond nì”: il Recovery Fund promosso dalla Francia di Emmanuel Macron contiene in sè le basi strutturali dell’emissione di titoli comuni, ma si discosta decisamente dalla speranza italiana di veder mutualizzata una parte del debito necessario alla ripresa. E nel frattempo l’Italia come si è mossa? A parte l’adesione alla condivisa richiesta di ricapitalizzare la Banca Europe degli Investimenti, da Roma sono venute dichiarazioni a effetto, ma ben poche idee. In fin dei conti l’Italia ha preferito mettersi al traino dell’azione francese, subendo però in questo caso l’apertura di Emmanuel Macron a Berlino sull’introduzione del fondo salva-Stati nel perimetro di misure anti-crisi.

Sul fronte del Mes il grave errore del governo Conte è stato sventolarne, una volta di più, lo spauracchio senza mettere in chiaro che l’Italia non avrebbe mai dovuto ricorrere alla sua introduzione nel nostro sistema economico. Sono mancate le incisive proposte economiche sul fronte interno, il rilancio di investimenti produttivi, crescita e occupazione (i miliardi di liquidità di garanzia non bastano) capaci di fugare ogni dubbio a riguardo. Sfruttando, al tempo stesso, l’ammissione di impotenza della Commissione europea, culminata nella sospensione del patto di stabilità per il 2020.

A Roma tutto taceva. Perlomeno, anche dei Paesi maggiormente trincerati nell’ottusità del rigore, come l’Olanda di Mark Rutte, si potevano conoscere con trasparenza le posizioni politiche (autolesioniste per l’Europa) e le giustificazioni portate per il loro sviluppo. Ma per l’Italia questo non è stato possibile. Il governo giallorosso, prigioniero della sua retorica europeista, non aveva il mordente necessario per criticare l’Unione sul terreno della sua inazione nè il capitale politico per compiere strategie di ampio respiro quali quelle condotte dalla Francia di Macron.

E dire che una strategia di fondo poteva trovare un minimo comun denominatore nella ricerca di strumenti per ottenere una mutualizzazione del debito per le spese emergenziali anche senza l’insistenza, a ogni costo, sugli Eurobond. Portare le battaglie a questioni di vita o di morte rischia di demolire il capitale politico di un esecutivo. E nella discussione dell’Eurogruppo è passata l’idea che l’Italia non sia stata sconfitta, ma sia a conti fatti risultata ininfluente. Altri Paesi hanno dimostrato maggior cinismo e progettualità: l’Unione non è mai stata un pranzo di gala, ma l’ingenuità e i toni retorici non supportati da azioni concrete creano solo caos e disillusione. Si preannunciano tempi grigi per il Paese in Europa.

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