Gli operatori della finanza sono ciclicamente esposti a ripetere gli errori del passato perché, a ogni livello, molto spesso rappresentano una delle categorie che meno conosce la storia della disciplina di cui si professano padroni e profondi conoscitori. I finanzieri non studiano la storia, le “pedine” del gioco spesso la ignorano, gli storici della finanza non sono attori del gioco borsistico. E così spesso c’é incomunicabilità di fronte al rischio che eventi del passato, spesso destinati a perturbare il sistema, si ripetano. Semplicemente ignorato dagli attori in campo.

La folle corsa di Wall Street

La fase attuale, che vede il mondo reduce da un anno catastrofico per le economie reali del pianeta ma vittorioso per le principali borse, ne é un chiaro esempio. Nel 2020 i due indici borsistici di riferimento, il S&P500 e il Nasdaq, sono saliti rispettivamente del 13 e del 38%, trascinati in particolar modo dai titoli tecnologici e dalla corsa delle loro capitalizzazioni fino a livelli stellari. Apple ha segnato un +81% sfondato quota 2mila miliardi di valore, Tesla è cresciuta del 743%, Alphabet e Facebook hanno aumentato i loro valori di circa un terzo (31 e 33%), Netflix di due terzi (+67%), Amazon di tre quarti (+76%). Gli sbarchi di nuove società quotate in borsa, al contempo, segnalano che l’entusiasmo è alle stelle.

Domani segnala il caso di AirBnb, il portale per l’affitto di stanze in centri urbani, rivoluzionando con la sua app il turismo su scala internazionale. La società, frenata nell’attività operativa dalla diffusione globale del Covid-19 nel difficile 2020, “ha prezzato la sua offerta ben oltre la forchetta di prezzo a 68 dollari per azione, ottenendo una valutazione superiore ai 40 miliardi di dollari prima dello sbarco in Borsa il 9 dicembre”. Un valore che supera quello attualmente raggiunto a Piazza Affari da un colosso come Intesa San Paolo e che “alla fine del primo giorno di scambi era più che raddoppiato rispetto a quello deciso dai banchieri alla vigilia della Ipo, e che oggi si aggira sui 90 miliardi di dollari”, più della nostra Enel, l’azienda italiana col maggiore capitale borsistico. Snowflake, società di cloud con ricavi inferiori ai 300 milioni di dollari, vale invece oggi quanto la storica Ibm.

Le lezioni dimenticate

E qui veniamo alle lezioni mai apprese della storia finanziaria. Riprendiamo in mano la Bibbia degli storici del settore, Maniac, Panic and Crashes, il saggio del compianto Charles Kindleberger che ha studiato la ciclicità delle crisi finanziarie susseguitesi dalla bolla dei tulipani olandese del Seicento ad oggi. All’inizio si parte con la “mania”, l’euforia, il rally continuo ed entusiasmante dei valori borsistici su cui gli azionisti e gli investitori si buttano realizzando profitti-record molto spesso slegati dal valore produttivo reale degli asset quotati. Segue poi la fase del redde rationem: le imprese devono giustificare la capitalizzazione raggiunta gli azionisti privati o istituzionali chiedono cedole di dividendo, il clima a livello generale può mutare e la sfiducia può insorgere.

Ma la fase più preoccupante è quella dello schianto, il “crash”: quando una bolla finanziaria è percepita come tale, la sua esplosione ne é la logica conseguenza, la rovina degli investitori più sprovveduti e conseguenze sistemiche a cascata il corollario. E che si parli di boccioli di tulipani o frazioni di prestiti per l’acquisto di case trasformati in titoli, gli investitori si accorgono, col senno di poi, di come farsi trascinare dall’euforia non è mai una scelta strategicamente saggia.

I costi della superbia finanziaria

“Posso calcolare i moti dei corpi celesti, ma non la follia delle persone”, scrisse amareggiato nel 1720 Isaac Newton, dopo una rovinosa perdita finanziaria seguita allo scoppio della South Sea Bubble. E la finanza in questo contesto non annoia mai. Più vicine tra loro sono le bolle, più grande appare l’effetto rimozione degli investitori.

Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto: la crisi delle “tigri asiatiche”, l’ascesa e il tracollo del Long Term Capital Management tra il 1997 e il 1998, la bolla del digitiale di inizio millennio e la crisi dei subprime del 2007-2008, a cui é seguita la Grande Recessione. Da circa dieci anni diverse bolle vanno gonfiandosi sulla scia del denaro facile delle banche centrali e dell’aumento dell’espansione monetaria di cui il Covid ha consentito un’ulteriore iniezione. Denaro in larga parte andato ad alimentare il gioco della speculazione borsistica, che in questi casi si è rivolto ai giganti dell’economia immateriale o dei settori emergenti. Diventa più conveniente per un investitore comprare azioni Tesla che auto del gruppo di Elon Musk, prenotare una quota dell’emissione azionaria di AirBnb che contribuire al suo fatturato operativo, iscriversi al “parco dei buoi” dei sottoscrittori di titoli Netflix che abbonarsi alle sue programmazioni.

La fase attuale somiglia molto a quella della bolla del “dot.com” dilatatasi e esplosa a cavallo del secolo. Domani ricorda che dei tre gruppi che quell’anno fecero registrare le migliori performance, “Palm, Corvis e Infineon, solo quest’ultima, produttore tedesco di semiconduttori, sopravvive ancora oggi”. A Wall Street l’orgoglio e la sicumera stanno avendo la meglio. Come nei momenti peggiori della storia finanziaria recente: c’é una correlazione ben significativa tra l’ascesa degli Usa a superpotenza finanziaria globale dopo l’ultimo conflitto mondiale e l’aumento esponenziale di crisi sistemiche legate agli atteggiamenti rapaci e molto spesso incoscienti delle élite di Wall Street. In Elon Musk e compagnia rivive l’alterigia dei robber barons del Novecento, ma anche il senso di impunità dei grandi leader finanziari trascinati dagli altari alla polvere dopo il big bang seguito al fallimento di Lehmann Brothers.

“Quando smettono di parlare sottovoce gli operatori di Wall Street sostengono che «niente può andare storto» sulla piazza newyorchese tra vaccini in fase di distribuzione, aspettative di ripresa e tassi d’interesse vicini allo zero, in un clima di invulnerabilità che non fa che aumentare ancora i prezzi”, prosegue il giornale diretto da Stefano Feltri. I manager di Ltcm, negli Anni Novanta, amavano definirsi con modestia “i padroni dell’universo” (masters of the universe) prima che il modello del fondo basato sugli algoritmi creati dai premi Nobel Robert C. Merton e Myron Scholes, che gestiva fondi con una leva irreale di 30 a 1 promettendo rendimenti annui del 40% ai suoi sottoscrittori, fallisse sull’onda lunga del default russo del 1998.

Dalla mania al panico, i rischi per l’Europa

E ora, dopo la sardana finanziaria del 2020, i listini iper-dilatati di Wall Street e la corsa eccezionale dei titoli tecnologici, la fase “mania” sembra essere in pieno dispiegamento. Le quotazioni stanno decollando con sempre maggior energia rispetto al livello di utili operativi, fatturati e prospettive produttive dei gruppi quotati con il maggior valore.

E Oltre Atlantico c’é il rischio che la fine dell’euforia arrivi come una doccia gelata per i sistemi finanziari europei. Le prime due compagnie europee per valore borsistiche, le svizzere Nestlè e Roche, sono tra il ventesimo e il venticinquesimo posto su scala globale. La prima dell’Ue, la francese Lvmh, é ventireesima, con poco più di 300 miliardi di capitalizzazione, un settimo di Apple. Le dimensioni degli stock di capitale e dei movimenti finanziari del 2020 sono stati estremamente minori rispetto alle controparti di oltre Atlantico, e dunque un’eventuale crisi di capitalizzazione creerebbe una situazione problematica, travolgendo a cascata un mercato molto meno dilatato e attivo.

Così come nel 2000 e nel 2007-2008, dunque, é negli Usa che bisogna cercare i principali fattori di rischio per la stabilità del sistema internazionale. Bolle e operazioni speculative vanno sovrapponendosi con maggior intensità. E sono già suonati i primi campanelli d’allarme. Una sola maxi-scommessa della banca giapponese SoftBank, andata troppo oltre nel suo continuo rilancio di azioni rialziste sui titoli tecnologici, ha portato a una brusca correzione nella giornata del 3 settembre: in quella seduta Wall Street si é schiantata con una forza che non si vedeva dai primi giorni di diffusione globale della pandemia di coronavirus: l’S&P500 ha lasciato sul terreno il 3,5% in una singola seduta, il Dow-Jones il 2,2%, il Nasdaq, motore della ripresa borsistica statunitense ha ceduto il 5%. E assieme a SoftBank sono molte le “balene”, i cosiddetti market-mover che con le loro azioni condizionano a cascata migliaia di investitori.

Fondi come BlackRock e Elliott, ad esempio, o grande banche d’investimento quali Goldman Sachs, per fare nomi tra i più noti, ne sono un esempio. E se un singolo gioco spericolato può, in una fase di euforia, creare smottamenti di tale portata, non osiamo immaginare a cosa potrà portare un processo di sgonfiamento della bolla fin qua creatasi.

Non é questione di se o quando: l’esplosione dei listini, non essendo prevista un’immediata ripresa delle economie reali occidentali a livelli pre-Covid, può portare a una crisi sistemica. Al processo di panico e schianto tipico dei processi del passato. Non é scritto nelle stelle, ma nelle dinamiche della storia a cui gli operatori attuali vanno, gradualmente, conformandosi. E a pagare i prezzi più salati potrebbe essere proprio l’Europa, inerme di fronte alle tempeste speculative di provenienza atlantica e ancora più vulnerabile di fronte alla sua natura di continente più colpito, sul piano finanziario, sociale ed economico, dalla pandemia.

Un’esplosione della nuova bolla del tech rischierebbe di far sembrare una scampagnata la buriana del 2007-2008: dal quantitative easing globale alla grande speculazione in corso sui listini, la causa dell’iper-dilatazione dei listini sta nella scelta di non cessare mai politiche monetarie nate con finalità emergenziali dopo la Grande Recessione. E potrebbe esser troppo tardi per invertire la rotta.