In Italia, a gran voce, molti politici e intellettuali chiedono, in buona o mala fede, la modifica delle clausole con cui l’Unione europea si appresta a riformare il Meccanismo europeo di sicurezza (Mes) in un senso a dir poco contrario al nostro interesse nazionale. Ma siamo ancora in tempo per farlo? Il Mes è un trattato internazionale approvato ben sette anni fa, ai tempi del governo Monti, dopo un negoziato di circa due anni, passato allora in sordina mentre Camera e Senato in Italia lo approvavano senza colpo ferire.
Le attuali disposizioni di modifica emendano, sicuramente in peggio, un trattato i cui impianti sono già stati stabiliti a quei tempi, comprese alcune delle clausole che permettono al Mes e ai suoi funzionari una vera e propria onnipotenza legislativa e personale. “Il Mes e i suoi funzionari godono di piena e perfetta immunità da ogni giurisdizione. Non possono essere oggetto di perquisizioni, ispezioni o altro da chicchessia”, ha dichiarato al Sussidiario il docente dell’Università Cattolica di Milano Alessandro Mangia, che ha poi proseguito:
I suoi documenti sono secretati. Gli organi di vertice non sono perseguibili per gli atti adottati nell’esercizio delle loro funzioni
Interessante poi è la lettura dell’Articolo 34 del trattato istitutivo del Mes che, è bene ripeterlo, precede l’attuale riforma. Esso dice esplicitamente che “i membri o gli ex membri del consiglio dei governatori e del consiglio di amministrazione e il personale che lavora, o ha lavorato, per o in rapporto con il Mes sono tenuti a non rivelare le informazioni protette dal segreto professionale. Essi sono tenuti, anche dopo la cessazione delle loro funzioni, a non divulgare informazioni che per loro natura sono protette dal segreto professionale”. Questo passaggio, dopo l’approvazione della norma sette anni fa, è diventata legge dello Stato italiano. In quel breve “in rapporto” è contenuto un vulnus alla trasparenza degli esecutivi nazionali. Quindi, ad esempio, se Giovanni Tria o Giuseppe Conte venissero interrogati sui contenuti delle discussioni tematiche del 2018 sulla riforma del Mes, sarebbero tenuti a un taciturno diniego di conferire alcuna risposta.

Il Mes crea dunque un sistema in cui: il Paese richiedente aiuto cede completamente il controllo del suo sistema finanziario ed economico ad un organo esterno, formalmente, all’architettura Ue; è costretto a condizionare la ricezione di finanziamenti a sanguinosi programmi di austerità; è vincolato a una ristrutturazione del debito ritenuta rovinosa anche da un economista di centro-sinistra moderato come Giampaolo Galli; consegna la sua sovranità a un organismo terzo i cui membri sono insanzionabili e, anzi, nemmeno vincolati, al pari dei membri delle istituzioni che con essi collaborano, a formulare un resoconto trasparente del movente delle loro azioni.
Mangia, nell’intervista, fa un esempio concreto di cosa significherebbe un intervento del Mes in Italia. Se uno choc del debito o una situazione di crisi costringessero Roma, terzo contributore del “fondo salva-Stati” a ricorrervi, “sarebbe il Mes, e non la Commissione, a valutare sulla base di meccanismi automatici l’opportunità di chiedere una ristrutturazione del debito pubblico”, a dettare le regole per ottenere questo finanziamento (pacchetti di austerità inclusi) e a determinare il contenuto finale del riallocamento del debito pubblico. Ignorando il piccolo dettaglio della realtà concreta, che vede circa il 70% dei buoni del Tesoro detenuti da banche o investitori nazionali. E stiamo tacendo, finora, dei problemi di legittimità costituzionale che ciò comporterebbe e che un accademico di spessore come Carlo Pelanda ha recentemente sollevato in relazione all’Articolo 47 della Carta sulla tutela del risparmio. Il Mes è un circolo vizioso senza uscita: e il problema maggiore è il fatto che le sue criticità più importanti non riguardano la riforma attuale sulle regole di ingaggio ma un pacchetto già accettato e firmato dai Paesi Ue.