La cerimonia di passaggio di consegne da Mario Draghi a Christine Lagarde, negli scorsi giorni, è avvenuta in un’atmosfera certamente più serena, rilassata e distesa di quella che segnò, nel 2011, l’avvicendamento del predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet, con il banchiere romano. Allora la pompa e il fasto furono subito dismessi al termine della cerimonia, a cui seguì una durissima negoziazione sulle politiche che l’Unione Europea avrebbe dovuto compiere da novembre 2011 in avanti.

Oggi, quell’atmosfera è stata in larga misura resa più distesa proprio dalle azioni o dalle prese di posizione di Draghi, che pur senza aver compiuto miracoli è riuscito a erodere l’egemonia politica dell’austerità di matrice tedesca, lasciando a Angela Merkel e Wolfgang Schauble l’onere della responsabilità per una fine della moneta unica che tra il 2011 e il 2012 era tutt’altro che da escludere. L’era Draghi è stata costellata da errori di valutazione, molto spesso sanguinosi (vedasi la Grecia) in larga misura imputabile alla dominazione dei “falchi” dell’austerità nella Commissione e, dunque, nei dossier ad essa afferenti.

Ora la Lagarde sembra avere in mente di coinvolgere proprio la Cancelliera come primo alleato per la nuova stagione della Bce. Perché eredita il ruolo di Draghi in un momento difficile: la Bce ha varato il nuovo quantitative easing, estendendolo sine die e prevedendo acquisti di titoli da 20 miliardi di euro al mese. Misura che non sembra però sufficiente per riportare l’Europa su un sentiero di crescita stabile: se c’è qualcosa che l’era Draghi ha insegnato è proprio il fatto che le debolezze europee sono state in larga misura legate al deficit della politica concreta, attiva e capace di decidere, che ha delegato all’autorità tecnica più pervasiva scelte che avrebbero dovuto esser di sua competenza. Come rilanciare la crescita? Come fermare il circolo vizioso dell’austerità?Domande a cui certamente Draghi ha provato a dare risposte, seppur rese incomplete dalla limitatezza del suo raggio d’azione.

Le guerre commerciali, il rischio Brexit, il problema della povertà e delle disuguaglianze, la sfida tecnologica e il deficit di competitività europeo sono campi d’azione in cui serve tornare a conoscere l’effettività di una vera politica. Capace, in primo luogo, di veicolare gli investimenti giusti. Di tornare a governare l’economia: perché Draghi e Lagarde hanno convenuto che senza un’azione fattuale dagli Stati il loro nuovo Qe finirà per alimentare la gora morta della speculazione finanziaria. E col suo cronico deficit di investimenti produttivi la Germania merkeliana è la nazione che può invertire l’inerzia. Facendo ammenda per anni in cui Berlino ha “barato” continuando con la svalutazione interna per ottenere, in termini di surplus commerciale, dividendi dall’uscita del resto dell’Europa dalla recessione e rafforzare il suo modello mercantilistico.

Questo modello comincia a fare fiasco sul fronte interno: Pil in calo, produzione industriale a picco, investitori sfiduciati. L’idea ordoliberista di uno Stato che supervisiona l’economia senza governarla strategicamente ha il punto di caduta nei momenti di crisi. In cui Berlino scopre che la politica batte la tecnica e che la domanda interna è fondamentale. Lagarde mira a rompere il decoupling con cui la Germania ha affrontato l’era Draghi: supporto personale della Cancelliera al governatore della Bce ma latente ostilità alle sue misure. Ora chiede sostegno attivo a politiche per la crescita. Un’azione diretta di Berlino, l’unico intervento che questi otto anni di crisi ci hanno insegnato poter esser risolutivo per dare sostanza alla ripresa europea.

Lagarde vuole far leva sulla stima reciproca: nel 2014 la Merkel la immaginava presidente della Commissione al posto di Jean-Claude Juncker, ma l’ex ministro di Nicolas Sarkozy declinò per restare alla guida del FMI; più di recente, la francese ha speso parole al miele per il capo del governo tedesco, parlando a un evento a Lipsia in cui erano presenti entrambe. “Lei non gioca mai da sola. Tutti noi giochiamo con lei e ci lasciamo guidare da lei”. La sfida, però, non sarà di quelle facili: ma data l’attuale frammentazione del fronte del rigore, se si vuole provare a proporre un’agenda di crescita è questo il momento giusto.