Qualcosa non quadra nelle disquisizioni sull’Europa “malata” che nelle ultime settimane hanno imperversato nella stampa: infatti dalla lettura degli articoli non si comprende bene in cosa consisterebbe la “malattia” dell’Europa.
In un recente articolo un opinionista di Bloomberg pone questa domanda: “Di cosa soffre l’economia dell’eurozona?”. Come se l’Europa inguaribilmente malata fosse già moribonda. L’autore prosegue citando in modo errato una discussione in una pagina web del Fondo Monetario Internazionale, dove in realtà si precisava: “Abbiamo corretto leggermente al ribasso le nostre previsioni economiche sui Paesi avanzati, principalmente per il ridimensionamento dei dati dell’eurozona”. A me, più che una malattia mortale, sembra un raffreddore.
Sono anche stati pubblicati vari articoli, di dubbia attendibilità, nei cui titoli si citava sempre un “malato d’Europa”, che a seconda dell’autore erano talvolta la Germania e altre volte l’Italia o la Francia. Il Wall Street Journal se l’è presa con la Germania e con la sua presunta “crisi di produttività”. Eppure le statistiche aggiornate dell’Ocse collocano la Germania nel gruppo dei Paesi avanzati in cui la produttività è più alta, esattamente prima dell’Olanda e dopo la Danimarca.
Inoltre leggiamo nella motivazione del giudizio favorevole con cui Fitch Ratings ha confermato il merito di credito dell’Italia, seppure con prospettive ancora potenzialmente negative: “L’occupazione è aumentata costantemente di quasi l’1%, la fiducia dei consumatori e degli investitori resta alta, l’intensa domanda estera traina le esportazioni e gli investimenti sono in parziale ripresa grazie alla facilità di accesso al credito e alla proroga degli incentivi fiscali”. Nemmeno questa suona come una situazione gravemente malata.
Ma allora, l’ Europa è malata o no?
Non è proprio così, anche se quest’anno sull’economia continentale soffiano forti venti gelidi.
Particolarmente preoccupante è l’andamento del commercio internazionale, come ha sottolineato il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, in un suo discorso del 27 marzo: “Eppure era evidente che il rallentamento dell’economia avrebbe potuto accentuarsi e prolungarsi se la domanda esterna fosse rimasta fiacca, circostanza che si è ampiamente realizzata. La flessione degli scambi commerciali internazionali è proseguita, con grave danno per il settore manifatturiero. A gennaio le crescenti incognite legate ai conflitti commerciali e la frenata delle economie dei Paesi emergenti, prima fra tutte la Cina, hanno fatto cadere le importazioni mondiali ai minimi dalla Grande Recessione a oggi”.
Poiché le esportazioni sono il pilastro dell’economia europea, il calo della domanda nuoce principalmente ai Paesi cardine del vecchio continente. Ma dobbiamo aspettarci un andamento così fiacco degli scambi commerciali ancora per molto tempo?
Jan Willem Velthuijsen, responsabile economico di Pwc Nederland, prevede una lieve decelerazione dell’economia nel 2020, ma anche una certa stabilità (cfr. il grafico precedente). Questa situazione cambierebbe se gli scambi commerciali internazionali peggiorassero.
Tuttavia la maggior parte degli economisti non predice questa caduta nel caos: secondo la società d’investimento JPMorgan Research, ad esempio, “dopo la volatilità imperversante in chiusura del 2018, all’inizio del nuovo anno nelle Borse è tornata una certa stabilità e gli investitori intravedono la possibilità di rifarsi delle perdite subite a dicembre. È vero che l’economia è in rallentamento, ma si tratta di una fase destinata a concludersi prima della fine del semestre grazie ad alcune strategie flessibili di sostegno, come la politica monetaria accomodante della Cina e la sospensione delle strette monetarie della Federal Reserve. Anche nel prosieguo dell’anno il pericolo di una recessione resta modesto”.
Indovinate un po’…? Brexit!
Adesso indovinate qual è il secondo maggior pericolo per l’ economia europea? Ma naturalmente la Brexit! Effettivamente i contraccolpi della Brexit (ma ce ne sono di varia intensità, a seconda della forma che assumerà la secessione) incideranno pesantemente sull’economia europea, perché il Regno Unito è uno dei partner commerciali più importanti per quasi tutti i Paesi del continente.
Poiché nessuno sa come finirà la Brexit, gli operatori di Borsa e gli analisti devono prevedere anche gli esiti peggiori e le conseguenze saranno spiacevoli per le economie tutti i Paesi coinvolti.
Per dare un’idea della gravità dell’evento, dopo la Brexit sulle importazioni di prodotti alimentari dall’Unione europea, che costituiscono un terzo di tutti quelli consumati nel Regno Unito, saranno imposti pesanti dazi, e a pagarne le spese saranno non solo i produttori europei, ma tutti gli operatori della catena logistica delle esportazioni, dai coltivatori ai trasportatori.
Un altro aspetto cruciale da tenere in conto è il ruolo di Londra, in passato fulcro del settore finanziario europeo – anche se alcune banche si sono trasferite nel continente già prima della Brexit – che seminerà scompiglio e infliggerà gravi danni agli stessi istituti bancari, agli intermediari ed a tutta l’industria dei servizi finanziari.
Per il momento un lungo rinvio della Brexit, o addirittura la sua revoca, restano nel novero delle possibilità; in questo caso assisteremmo a una vivace ripresa degli investimenti in tutta Europa, compreso il Regno Unito, e le Borse si impennerebbero.
Ma la Brexit non è un fattore eterno e strutturale dell’economia europea: prima o poi, comunque si concluda la secessione, tutto sarà consegnato alla storia e l’economia si riprenderà. Il caos e la confusione imperanti nella politica britannica non sono un motivo per dichiarare “malata” l’Europa. Nemmeno ci sono vere ragioni per definire “malata” l’economia europea: questo tipo di giornalismo è solo una chiacchiera rabbiosa e totalmente priva di significato.