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Hanno fatto scalpore nelle scorse settimane le dichiarazioni del sindaco di Bergamo Giorgio Gori (Pd) e del ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova sulle modalità più funzionali al reperimento di lavoratori per il comparto agroalimentare nella stagione dei raccolti e dei lavori nei campi.

Secondo Gori, sindaco di una delle città più colpite dal coronavirus, all’Italia “servono almeno 200 mila lavoratori extracomunitari” e un nuovo decreto ad hoc per attrarre i lavoratori stagionali. La renziana Bellanova ha chiesto invece la regolarizzazione dei lavoratori in nero e clandestini stanziati nelle baraccopoli-ghetto e vittime del caporalato. In entrambi i casi, è da rilevare la concezione strumentale del lavoratore straniero, dell’immigrato visto unicamente come risorsa o “braccia” da utilizzare per un lavoro temporaneo, volatile e senza certezze di rinnovo. Ma la debolezza politica della risposta non può cancellare che quello dell’agricoltura sia un problema importante.

Presto arriverà il tempo della raccolta nel settore agricolo, dai frutteti alle vigne passando per orti e campi di grano. Dalla primavera all’autunno un ampio flusso di lavoratori stagionali provenienti soprattutto dall’Europa dell’Est raggiunge l’Italia per contribuire all’opera. Parliamo di lavori intensi e con una paga oraria ridotta, in un settore piramidale in cui molto spesso anche ai piccoli produttori spetta una fetta minuscola della torta: una catena spezzata dal blocco dovuto alla crisi del coronavirus e al susseguente dissesto economico. “Nell’agricoltura italiana lavorano 400 mila lavoratori stranieri regolari, il 36% del totale, la maggior parte dei quali rumeni. Quest’anni molti non arriveranno”: in questa dichiarazione, effettivamente, Gori non ha torto. E il problema è comune a tutta Europa.

Il Financial Times ha calcolato la massa di lavoratori stagionali, provenienti in larga misura dall’estero, di cui le agricolture europee rischiano di essere ben presto private: 200.000 la Francia, 250.000 l’Italia, 70/80.000 sia la Spagna che il Regno Unito, 300.000 la Germania. Circa 900.000 unità in totale, molte delle quali frenate dalle restrizioni ai viaggi (rimosse per gli stagionali da Berlino), dall’incertezza dei mercati, dai timori dei singoli.

Del resto, la crisi insegna la difficile sostenibilità di una piramide economica sbilanciata verso la necessità di lavoratori a basso costo, pagati meno della media salariale nazionale, chiamati dall’estero per un compito temporaneo in cambio della possibilità di un guadagno funzionale a sostentare la propria famiglia in patria. Problemi come il caporalato, a cui in Italia si tenta ora di ovviare cinicamente dopo averlo per anni sottostimato, nascono proprio dall’intensificazione di questa corsa verso il basso e dalla difficile sostenibilità di una competizione dei prezzi sui prodotti agroalimentari in cui i lavoratori sono i primi a pagare dazio.

Al tempo stesso, anche in un contesto di elevata disoccupazione (si prevede un boom al 13% nel nostro Paese) incentivare con voucher o possibilità di lavoro temporaneo i cittadini del Paese è difficile. Il lavoro nei campi è rivolto principalmente a cittadini di età relativamente giovane e, purtroppo, lavori stagionali come quelli basati sulla manodopera stranieri non attraggono. Risulterebbe problematico legalmente proporre di di impiegare persone che hanno perso il lavoro (cassintegrati o fruitori del reddito di cittadinanza) senza far perdere loro tali diritti acquisiti, come suggerito da Confagricoltura. In questo contesto, dove intervenendo la Commissione europea ha pubblicato linee guida per garantire la creazione di ‘corridoi verdi’, per la gestione dei flussi volti a soddisfare la domanda enorme di lavoro stagionale, sul lungo periodo l’unica soluzione può essere il superamento della corsa verso il basso di trattamenti economici e condizioni di lavoro. Il cibo è bene primario e, in certi sensi, asset strategico in periodi di crisi: metterlo a repentaglio per le instabilità del suo mercato e della filiera è un autogol che nessun Paese, Italia in testa, può permettersi di realizzare.

 

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