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A fine ottobre Mario Draghi lascerà alla francese Christine Lagarde la guida della Banca centrale europea,e sarà giunto definitivamente il tempo dei bilanci sull’operato dell’ex governatore della Banca d’Italia ai vertici della piramide finanziaria dell’Eurozona.

L’inquilino dell’Eurotower, nei suoi otto anni di reggenza, ha indubbiamente conquistato centralità d’azione in Europa. Si può obiettare a Draghi, come recentemente evidenziato da Paolo Savona, che l’attuazione del quantitative easing è stata tardiva rispetto a quanto fatto dalle restanti banche centrali del mondo. Ma non di avere preso la consapevolezza dei rischi insiti nell’austerità dominante tra il 2011 e il 2015, anno di avvio del piano triennale d’acquisti.

La Bce targata Draghi ha a più riprese mediato con l’inconsistenza e il rigorismo pro-austerità della Commissione Juncker-Moscovici, ma sul lungo periodo la sua azione ha avuto il fiato corto. Gli effetti dell’espansione monetaria non si sono trasmessi con forza all’economia reale, la Bce non si è costituita come prestatore di ultima istanza, e la crisi borsistica del 2018 ne ha evidenziato il limite principale: la dipendenza dal new normal fatto di bassi tassi e denaro a volontà da parte di un sistema finanziario che le banche centrali del pianeta non hanno saputo moderare su un’espansione ragionevole di quotazioni e valori di capitalizzazione.

Al tempo stesso Draghi deve ora affrontare un’ultima, cruciale sfida. Pronta a animare quella che sarà la sua ultima battaglia da governatore della Bce: la rottura dell’impasse, determinato anche da anni di Qe, dei titoli di Stato in campo negativo (per la Germania addirittura il Bund decennale) e il rilancio del circuito del credito a famiglie e imprese da parte delle banche. Non è un caso che i soli annunci di Draghi di un nuovo programma di acquisto titoli abbiano causato una convergenza dei rendimenti delle obbligazioni a lungo termine: tuttavia, il banchiere italiano mira a evitare che si ripresentino gli effetti deteriori del Qe, ovvero un’eccessiva inflazione della finanza a scapito dell’economia reale.

Per questo motivo Draghi punta a unire al rilancio degli acquisti dei titoli sovrani un aumento dallo 0,4% allo 0,6-0,7% delle commissioni legate al deposito di liquidità presso la Bce da parte delle banche europee. Misura volta a stimolarne l’operatività e che penalizzerebbe particolarmente le banche tedesche, francesi, olandesi e belghe, che da sole hanno parcheggiato alla Bce l’ 80% di quel denaro.

Senza questa garanzia un nuovo piano di acquisto di titoli pubblici avrebbe effetti molto simili rispetto a quello precedente, comprensivi dei limiti precedentemente citati. Draghi deve scontare l’ostilità di tre influenti banchieri centrali nazionali – il tedesco Jens Weidmann, il francese Francois De Galhau e l’ olandese Klaas Knot – a un pacchetto di misure da approvare entro ottobre per legare le mani alla Lagarde, che potrebbe essere tentata dal “gioco di squadra” con il connazionale, e presentare a governi e mercati un’azione difficilmente modificabile nel breve periodo.

Nella giornata di ieri, Draghi ha segnato il primo punto annunciando, contro ogni resistenza, un rilancio del Qe da 20 miliardi al mese a partire da novembre, inteso non più come un programma di durata triennale ma come un piano destinato a durare “finchè necessario”, formula vaga che però impegnerà anche la Lagarde a seguire il sentiero tracciato dal predecessore. Restano immutate le previsioni di un obiettivo di inflazione al 2% mentre è da segnalare il taglio del tasso di interesse sui depositi (-0,5%). Il Qe riparte, meno intenso rispetto al passato: ma la grande eredità di Draghi è proprio la sua capacità di fare scuola per gli anni a venire.

L’ultima battaglia di Draghi sconta comunque i limiti di un approccio che, una volta di più, dimentica la vitale necessità di dare fiato alla produzione industriale e manifatturiera del Vecchio Continente e valorizzare l’economia reale. Abituare i mercati finanziari a uno stato di cose pensato come emergenziale ed anti-crisi significherebbe dover affrontare, in futuro, i rischi di bolle paragonabili a quella del 2007-2008 per l’eccessiva inflazione degli indici borsistici. Al tempo stesso, uno stop alle misure degli ultimi anni non supportato da una forte volontà politica di discontinuità, che in Europa non si intravede, causerebbe duri colpi economici nel breve periodo. Draghiha capito che il sentiero è stretto e le poche mosse a disposizione, in un certo senso, obbligate per evitare una nuova stagione di ristagno e austerità finanziaria.

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